Buoni Pasto: per la Cassazione non rientrano nel rapporto contrattuale

Tutti conoscono la vertenza sorta fra sindacati e amministrazioni pubbliche per la mancata erogazione dei buoni pasto ai dipendenti in smart working durante il Coronavirus, a fronte delle disposizioni recate dal d.l. 18/2020, che è stata risolta dal Tribunale di Venezia (sentenza n. 1069/2020) negando ai dipendenti richiedenti l’obbligo della loro erogazione. Nella sentenza è stato anche precisato che la mancata corresponsione dei buoni pasto non doveva essere oggetto di contrattazione e confronto con le sigle sindacali.

Con l’ordinanza n. 16135 del 28 luglio 2020 la Cassazione è di nuovo intervenuta sull’erogazione dei buoni pasto ai dipendenti, precisando che l’assegnazione degli stessi è di competenza esclusiva del datore di lavoro, ben potendo legittimamente scegliere quest’ultimo, in via unilaterale, di non erogarli più, con conseguente rigetto delle doglianze di un dipendente che aveva reclamato l’illegittima decisione del datore di lavoro di non corrisponderli più.

Sorge a questo punto la domanda se le medesime condizioni valgano anche per gli Enti locali.

In merito, l’ARAN con orientamento applicativo RAL 1274 ha evidenziato quanto segue:

  • ogni decisione è rimessa esclusivamente alle autonome determinazioni dei singoli datori di lavoro pubblici, sulla base di una adeguata valutazione delle proprie condizioni organizzative e degli aspetti connessi ai costi, si evidenzia anche che la materia dei buoni pasto, sostitutivi del servizio mensa, non forma oggetto di contrattazione decentrata integrativa, salvo che per i soli profili ad essa espressamente demandati dall’art.13 del CCNL del 9 maggio 2006; in particolare, si deve sottolineare che l’art. 45, comma 1 del CCNL del 14 settembre 2000, relativamente all’istituzione del servizio mensa o dei buoni pasto sostitutivi, proprio in considerazione della riconduzione della materia alle determinazioni unilaterali del datore di lavoro pubblico (per la rilevanza degli assetti organizzativi e di spesa) prevede solo il modello molto leggero del previo confronto con le organizzazioni sindacali;
  • non essendo previsto, contrattualmente, l’obbligo degli enti del Comparto di istituire il servizio mensa o di sostituirlo con la corresponsione del buono pasto, in mancanza delle risorse finanziarie necessarie, si esclude che il dipendente possa considerarsi titolare di un preciso diritto soggettivo alla corresponsione dei buoni pasto.

Si ricorda che il nuovo CCNL del 21 maggio 2018 ha operato un rinvio alla disciplina previgente, di cui agli articoli 45 e 46 del CCNL del 14 settembre 2000 e all’articolo 13 del CCNL 9 maggio 2006.

L’ORDINANZA DELLA CASSAZIONE

RILEVATO CHE
1. Con sentenza 30 giugno 2016, la Corte d’appello di Campobasso rigettava l’appello proposto da Gabriele (omissis) avverso la sentenza di 10 grado, di reiezione della sua domanda di accertamento di illegittimità dell’unilaterale deliberazione della datrice Società Autocooperative Trasporti Italiani (S.A.T.I.) s.p.a. dell’erogazione dei buoni pasto dal giugno 2006 e di condanna al pagamento delle relative differenze retributive;
2. avverso la predetta sentenza il lavoratore ricorreva per cassazione con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c., cui la società resisteva con controricorso;
3. il P.G. rassegnava le conclusioni ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c.;

CONSIDERATO CHE
1. il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2099, in combinato disposto con l’art. 36 Cost., 1373, 1374 c.c., per la ritenuta erronea unilaterale revocabilità dei c.d. buoni pasto, per la loro funzionalità ad un rapporto contrattuale integrativo, componente della retribuzione (anche per la “legittima aspettativa” dei lavoratori a seguito di una reiterata e generalizzata prassi aziendale dal 1999 all’aprile 2006) e pertanto soggetti al principio di irriducibilità della stessa (primo motivo);
2. esso è infondato;
2.1. la Corte territoriale ha correttamente interpretato la natura dei buoni pasto alla stregua, non già di elemento della retribuzione “normale”, ma di agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 14 luglio 2016, n. 14388), pertanto non rientranti nel trattamento retributivo in senso stretto (Cass. 19 maggio 2016, n. 10354; Cass. 18 settembre 2019, n. 23303); sicché, il regime della loro erogazione può essere variato anche per unilaterale deliberazione datoriale, in quanto previsione di un atto interno, non prodotto da un accordo sindacale;
3.2. l’interpretazione contrapposta dal lavoratore, di erogazione dei buoni pasto “in funzione di un rapporto contrattuale”, anche sulla base di una reiterazione nel tempo tale da integrare una prassi aziendale (pure viziata da una connotazione di novità, non parlandone la sentenza impugnata, né avendone il ricorrente offerto indicazione di una sua prospettazione negli atti dei precedenti gradi), non inficia il presupposto della natura non retributiva dell’erogazione;
3. il lavoratore deduce poi violazione e falsa applicazione dell’art. 21/8 del CCNL autoferrotramvieri del 23 luglio 1976, per la non corretta distinzione tra buoni pasto, erogati a tutti i lavoratori, e indennità di “concorso pasti”, riservata unicamente ai dipendenti fuori del comune di residenza nelle ore dei pasti (secondo motivo);
3.1. esso è inammissibile;
3.2. la censura è viziata da un’evidente carenza di interesse, per inidoneità a scalfire la ratio decidendi (ai due ultimi capoversi di pg. 4 della sentenza), oggetto del primo motivo, in quanto riguardante un profilo argomentativo avente sostanziale natura di obiter dictum, ininfluente sul dispositivo della decisione (Cass. 18 dicembre 2017, n. 30354; Cass. 25 settembre 2018, n. 22782);
4. le superiori argomentazioni comportano il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza, con distrazione in favore dei difensori antistatari secondo la loro richiesta e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in C 200,00 per esborsi e C 3.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori anticipatari. Ai sensi dell’art. 13 comma lquater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 4 dicembre 2019




PA, Corte conti: spesa personale inferiore al 2010, aumenta età media dipendenti

“Nell’anno 2018 il personale pubblico si è attestato sul livello di 3,2 mln di unità, in leggera flessione rispetto all’anno precedente (-0,6%). Nel confronto con il 2010, anno di avvio delle limitazioni alla facoltà di reclutamento da parte della PA, la flessione risulta molto più consistente, pari a 2,7 punti percentuali (circa 91mila unità in meno), attribuibile al trend del settore delle autonomie locali (-7,1%), solo marginalmente compensata dal lieve aumento dei dipendenti delle amministrazioni centrali (+0,7%)”.

E’ quanto emerge dalla “Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020” della Corte dei conti , che segnala anche il persistere del “progressivo incremento dell’età media dei dipendenti pubblici” , nel 2018 “oramai superiore a 50 anni (era di 43,5 anni nel 2001), da ricondurre agli effetti connessi alle politiche restrittive in materia di assunzioni”.

Per la magistratura contabile, inoltre, le politiche restrittive sulla spesa messe in atto negli anni della crisi, indispensabili per la tenuta complessiva dei conti pubblici, “hanno generato effetti indiretti sulla qualità complessiva delle risorse umane disponibili” e la prolungata assenza di turn-over ha “accentuato il gap conoscitivo e professionale tra le competenze teoriche, acquisite nell’iter formativo dalle nuove generazioni, cui per troppo tempo è stato precluso l’accesso al pubblico impiego, e quelle più “statiche” possedute dal personale in servizio, che continuano a caratterizzare, oltreché condizionare, la gran parte delle attività poste in essere dalle pubbliche amministrazioni”.

Sotto il profilo finanziario, il costo del lavoro dipendente, come definito dall’IGOP – Ispettorato Generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, nel 2018 si è attestato su un valore complessivo pari a 165,9 miliardi in aumento del 3,7% rispetto al 2017, in linea con l’incremento a regime previsto per la contrattazione collettiva nazionale per il triennio 2016-2018 (3,48%).

Pur a seguito di tale aumento, l’aggregato di spesa continua a mantenersi su un livello inferiore a quello del 2010 (-4,7 mld), con una contrazione del 2,8%, imputabile al blocco introdotto dal DL n. 78/2010 convertito con modificazioni dalla legge n. 122/2010. Se si estende l’analisi dei profili di onerosità agli anni 2020 e 2021, le previsioni (definite in contabilità nazionale) proiettano la spesa per redditi di personale, per la prima volta, al di sopra dei livelli del 2010.

La Relazione contiene anche utili comparazioni sull’andamento della spesa in ambito europeo, dalle quali emerge come, “a fronte di un dato medio europeo crescente tra il 2010 e il 2018, l’Italia, al pari di Grecia e Portogallo, si sia caratterizzata per una dinamica negativa, sulla quale ha inciso la costante contrazione della spesa pro capite per personale pubblico fino al 2015, solo parzialmente compensata dalla ripresa nel triennio 2016-2018″.

Relazione Corte dei Conti