Solo il sindaco può emanare l’ordinanza contingibile e urgente

L’ordinanza contingibile e urgente sottoscritta da un dirigente è illegittima in quanto viziata da incompetenza. Alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale solo il sindaco, in qualità di ufficiale di governo, è dotato di tale potere, non delegabile, peraltro, a soggetti diversi dall’Amministrazione comunale, anche in considerazione del fatto che al dirigente in questione sono attribuiti solo compiti di ordinaria gestione del patrimonio comunale che non contemplano in nessun modo l’adozione di provvedimenti extra ordinem a tutela della sicurezza. Sono queste le conclusioni cui è giunto il TAR Campania, Sez. V, mediante la sentenza dell’8 luglio 2021, n. 4693.

L’istante ha impugnato le ordinanze con le quali il funzionario comunale responsabile del servizio igiene e sanità, sulla base del verbale di sopralluogo effettuato dalla Polizia municipale, ha ordinato di provvedere alla pulizia radicale del fondo di cui l’istante è proprietaria mediante il taglio delle erbacce e degli arbusti selvatici, entro il termine perentorio di 20 giorni dalla notifica. Il Collegio ha ritenuto di dover accogliere il ricorso soprattutto alla luce dell’illegittimità dei gravati provvedimenti per l’incompetenza del dirigente responsabile dell’emanazione. Assume infatti rilievo l’esercizio della potestà di ordinanza riservato, dall’articolo 54 del TUEL, espressamente al sindaco. Dunque le determinazioni comunali così assunte soffrono il vizio di incompetenza, per cui s’impone l’annullamento delle stesse.

IL TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA




La progressione verticale verso la dirigenza sarà una lunga sanatoria dei dirigenti a contratto

L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 7/7/2021)

L’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021, nel rispetto delle indicazioni programmatiche enunciate nel marzo 2021 dal Ministro della funzione pubblica, apre nettamente percorsi di carriera per i dipendenti pubblici, rendendo possibile la progressione verticale dalla qualifica di funzionario a quella dirigenziale.
È bene ricordare che fin qui tale progressione non era possibile: l’accesso alla dirigenza era assicurato esclusivamente da procedure di concorso pubblico, che, oggettivamente, costituivano ed un tempo un criterio selettivo molto accentuato, ma anche ostacolo alle prospettive di carriera, per l’asimmetria organizzativa.
La carriera, infatti, nelle pubbliche amministrazioni non è lineare: l’accesso alla dirigenza non è comunque disponibile in tutti gli enti, perché non tutti prevedono qualifiche dirigenziali. Pertanto, molto spesso l’accesso alla dirigenza implica anche scelte “logistiche” ed il passaggio ad amministrazioni diverse, e non necessariamente quindi un salto di carriera nell’ente di appartenenza.
Tuttavia, nei fatti gli enti hanno utilizzato in via di prassi (ed in modo certamente più che criticabile) strumenti per aggirare gli ostacoli al percorso di carriera ed introdurre comunque una vera e propria progressione verticale, sia pure non in grado di assicurare con continuità l’accesso alla dirigenza.
Si tratta dell’uso distorto delle previsioni contenute nell’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 e dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e, cioè, degli incarichi dirigenziali a contratto.
La combinazione tra le due norme, per alto obbligatoria e necessaria, come da sempre indica la giurisprudenza e come dal 2009 impone il comma 6-ter, dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001, impone di attribuire gli incarichi a contratto in presenza di alcune condizioni oggettive e di requisiti soggettivi molto specifici.
Sul piano soggettivo, gli enti debbono dimostrare che l’incarico è finalizzato a coprire fabbisogni di particolare, dunque non comune, qualificazione professionale, a condizione che tali qualificazioni non siano rinvenibili negli organici, fornendo a proposito adeguata dimostrazione e motivazione.
Sul piano soggettivo, alla particolare qualificazione del fabbisogno, corrisponde la elevata e non ordinaria qualificazione professionale dei destinatari, reclutabili con le forme semplificate e parzialmente derogatorie al concorso pubblico specificati dalle norme, tra persone di particolare e comprovata qualificazione che:

  1. abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali,
  2. o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza,
  3. o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.

La prima e la terza categoria di soggetti non pone problemi interpretativi. In particolare la terza è chiarissima: si possono reclutare tra i dirigenti persone la cui attività lavorativa è già stata preceduta da concorsi selettivi di altissimo profilo ed è caratterizzata da attività e funzioni in qualche misura già simmetriche a quelle dirigenziali (anche se per i docenti universitari questo non è da dare per scontato). La prima categoria è riferita nella sostanza a chi abbia in passato già rivestito incarichi dirigenziali, anche in soggetti privati, per almeno 5 anni.
Oggetto delle distorsioni interpretative e, soprattutto, applicative è sempre stata la second categoria. Le amministrazioni sono sempre state portate a leggere solo la parte finale della norma, nella quale si consente di assegnare l’incarico dirigenziale a personale interno in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza con 5 anni di servizio, limitando a questo solo requisito il presupposto per l’attribuzione. A meglio leggere, invece, la norma chiede di più: non basta la semplice anzianità di servizio, ma occorre insieme all’esperienza lavorativa quinquennale la “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche”.
Sta di fatto che le PA ed in particolare gli Enti locali hanno largheggiato nell’attribuire incarichi a contratto a funzionari interni, del tutto privi dei requisiti di particolare professionalità richiesti dalla norma, utilizzando appunto l’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 e l’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 come strumento per assicurare una “progressione verticale a tempo determinato”, che però non di rado si è dimostrata stabile nel tempo, per effetto delle molte reiterazioni di detti incarichi.
L’articolo 3 del d.l. 80/2021, come detto, introduce una vera e propria progressione verticale verso la dirigenza, potenzialmente capace di assicurare molti benefici:

  1. attivare percorsi di carriera fin qui accidentati;
  2. creare uno strumento lineare e regolato dalla norma per l’accesso dei funzionari già dipendenti dalle amministrazioni che intendono coprire fabbisogni di qualifiche dirigenziali;
  3. superare, di conseguenza, attuazioni delle norme oltre i limiti della legittimità;
  4. porre in essere i presupposti per una formazione interna di soggetti competenti ed in grado di assumere progressive funzioni responsabilizzanti.

Guardando, quindi, la parte mezza piena del bicchiere della riforma, i vantaggi potenziali sono molti ed importanti.
Non può sfuggire un dettaglio: la nuova progressione verticale verso la dirigenza dovrebbe porre un freno appunto ad incarichi dirigenziali a contratto a funzionari interni non di rado forzati e, soprattutto, caratterizzati dall’assenza dei requisiti soggettivi. Ma, anche oggettivi: nessuno è mai riuscito efficacemente a spiegare come sia possibile attribuire incarichi motivati dall’assenza di professionalità nella dotazione organica a dipendenti che facciano parte della medesima dotazione organica!
La progressione verticale non obbliga a spiegare l’attribuzione della qualifica dirigenziale ai funzionari sulla base della necessità di acquisire professionalità peculiari, ma sarà una modalità ordinaria di selezione e di carriera, senza le forche caudine di motivazioni e rilevazioni complicate, barocche e spesso, a ben vedere, solo formali.
Non si può negare, tuttavia, che la parte mezza vuota della riforma sia parecchio preoccupante, per una serie di ragioni.
In primo luogo, in assenza di controlli preventivi esterni di legittimità, nessuno potrà assicurare che le progressioni verticali non saranno disegnate “ad personam” (in violazione, per altro, delle indicazioni anche del Piano Nazionale Anticorruzione del 2013) e senza la specifica attenzione alla qualificazione professionale richiesta.
In secondo luogo, il combinato disposto tra progressione verticale verso la dirigenza e la liberalizzazione della mobilità potrà amplificare a dismisura i casi come quelli del Lazio, ove un comune di piccolissime dimensioni, Allumiere, ha fatto nella sostanza da “centrale” di concorsi, per consentire la creazione di una lunga lista di idonei (molti dei quali casualmente funzionari di partito di spicco o parenti di funzionari di partito di spicco) alla quale hanno attinto tante amministrazioni, dalla regione ad altri comuni. Un simile sistema potrebbe non casualmente essere costruito per assicurare concorsi localizzati, non facilmente individuabili dai “radar”, semplici e mirati, perché qualcuno possa essere assunto come funzionario e dopo poco essere poi trasferito per accedere alla dirigenza. Troppo complicato? Quando le amministrazioni locali intendono slalomeggiare tra le norme, si assiste ad applicazioni forzate ben più arzigogolate.
Ma, il punto che si intende approfondire qui è un altro. La tabella di raffronto che proponiamo di seguito evidenzia una certa sovrapponibilità tra l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e le nuove disposizioni introdotte dall’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021 nel corpo dell’articolo 28 del d.lgs 165/2001, in relazione alla possibilità che funzionari accedano alla dirigenza:

Art. 19, comma, 6, stralcio Art. 28, comma 1-ter, del d.lgs 165/2001, come introdotto dall’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021
Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitariada pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza Fatta salva la percentuale non inferiore al 50 per cento dei posti da ricoprire, destinata al corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, ai fini di cui al comma 1, una quota non superiore al 30 per cento dei posti residui disponibili sulla base delle facoltà assunzionali autorizzate è riservata, da ciascuna pubblica amministrazione al personale in servizio a tempo indeterminatoin possesso dei titoli di studio previsti a legislazione vigente e che abbia maturato almeno cinque anni di servizio nell’area o categoria apicale. Il personale di cui al presente comma è selezionato attraverso procedure comparative bandite dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, che tengono conto della valutazione conseguita nell’attività svolta, dei titoli professionali, di studio o di specializzazione ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenzialedella tipologia e del numero degli incarichi rivestiti con particolare riguardo a quelli inerenti agli incarichi da conferire e sono volte ad assicurare la valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali. A tal fine, i bandi definiscono le aree di competenza osservate e prevedono prove scritte e orali di esclusivo carattere esperienziale, finalizzate alla valutazione comparativa e definite secondo metodologie e standard riconosciuti. A questo scopo, sono nominati membri di commissione professionisti esperti nella valutazione delle suddette dimensioni di competenza, senza maggiori oneri

Tratti comune delle due norme sono:

  1. l’esperienza pregressa almeno quinquennale;
  2. il possesso di titoli di studio o di specializzazione ulteriori a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

La norma del 2021 ha, tuttavia, il pregio di specificare con maggior chiarezza quei tratti, lasciati invece troppo indeterminati e preda di applicazioni arbitrarie da parte dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
Si guardi all’esperienza: non basta una semplice “anzianità” nella qualifica, ma fanno titolo, ai fini della procedura comparativa il numero degli incarichi rivestiti, attinenti alla posizione dirigenziale da ricoprire, e la valutazione ottenuta, che dà un’idea di come quegli incarichi siano stati svolti.
Si guardi ai titoli di studio o di specializzazione. L’articolo 19, comma 6, pretende, a ben vedere, che l’incaricato a contratto disponga sia di titoli postuniversitari e pubblicazioni scientifiche; l’articolo 28, comma 3-ter, novellato, ai fini della progressione verticale richiede che il candidato dimostri titoli e specializzazioni ulteriori alla laurea, necessaria per accedere alla qualifica.
Insomma, la progressione verticale è resa possibile, ma la condizione per accedervi è un investimento importante del dipendente nella propria carriera, accedendo ad incarichi di responsabilità, e nella propria formazione, acquisendo titoli di specializzazione (master, dottorati).
Si vorrebbe assicurare la progressione verticale non come sbocco automatico per anzianità al funzionario, ma a chi mostri capacità osservate nel passato e l’acquisizione di titoli e competenze, tali da consentire l’acquisizione di una qualifica dirigenziale che abbia prospettive di successo gestionale, sebbene non ottenuta a seguito del superamento del tradizionale concorso.

Se questi sono i pregi dell’impianto, non possono sfuggirne i gravi difetti. Un primo, che sarà da dimostrare, è il rischio di utilizzare la progressione verticale proprio come sbocco automatico, per nulla meritocratico. Vero è che le prove comparative dovrebbero dare merito al titolo di studio superiore, all’esperienza connessa ad incarichi concretamente gestiti ed alla valutazione positiva: ma, in assenza di criteri omogenei di pesatura di questi elementi, il rischio è che se ciascun ente farà da sé, potrà anche annullare nei fatti la significatività di questi criteri, se il predestinato non abbia in ogni caso né esperienza, né titoli rilevanti (non bisogna dimenticare che in Italia si sono verificati casi di direttori generali di comuni con la sola terza media e di dirigenti a contratto nemmeno laureati).
Ma, il secondo elemento critico appare il più delicato. Gli effetti positivi (che speriamo prevalgano su quelli nefasti, pur temendo la prevalenza di questi secondi) della riforma difficilmente si vedranno per un iniziale ma lungo tratto di tempo.

La progressione verticale, così come congegnata e grazie alla chiara parziale sovrapponibilità con l’articolo 19, comma 6, si presta ad essere utilizzata come mega sanatoria per gli incarichi a contratto conferiti in questi anni a funzionari.
È l’occasione per trasformare quella “progressione verticale a tempo determinato” in via di fatto realizzata così tanto spesso e in violazione delle norme, in una progressione definitiva, mirata esattamente a chi ha beneficiato o sta beneficiando degli incarichi dirigenziale a contratto, da “interni”.
Non ci si lasci ingannare dalla circostanza che la progressione verticale verso la dirigenza sia riservata solo ai dipendenti a tempo indeterminato. Solo in apparenza gli incaricati a contratto sono dipendenti a tempo determinato; lo sono nella qualifica dirigenziale, ma se si tratta di incaricati “interni”, sono dipendenti a tempo indeterminato con la qualifica di funzionari e collocati in aspettativa. Dunque, possono certamente concorrere alla verticalizzazione.

Non solo. I funzionari incaricati a contratto in questi anni, pur magari non possedendo né i tioli di studio postuniversitari né le pubblicazioni scientifiche che, pure, la norma imponeva, hanno certamente accumulato incarichi perfettamente in linea con la qualifica dirigenziale da coprire.
La rendita di posizione acquisita da costoro appare evidentissima e tale che bandi ben calibrati, volti a dare maggiore spazio valutativo appunto agli incarichi, specie se “dirigenziali” e molto meno ai titoli, non potranno che avere un esito scontato: la “stabilizzazione” degli incaricati a contratto, a sanatoria degli incarichi dirigenziali un po’ fantasiosi loro appannaggio negli anni.
Facile immaginare che per un tratto di tempo medio lungo le progressioni verticali verso la dirigenza saranno finalizzate alla trasformazione degli incarichi a contratto in assunzioni stabili nella qualifica dirigenziale.
Per lo stesso non breve tratto di tempo, dunque, si renderà concreta l’immissione di rilevanti quantità di dipendenti pubblici nella qualifica dirigenziale, selezionati a suo tempo nonostante l’assenza di rilevanti e peculiari competenze e per ragioni di chiara appartenenza politica o, comunque, fiduciarie.

Non un grande esito per una riforma che, per quanto caratterizzata da potenzialità positive, nell’immediato presta il fianco ad essere totalmente soffocata da intenti ben diversi dall’apertura delle carriere alla formazione e all’approdo verso la dirigenza. E, come rilevato prima, anche dopo, una volta realizzata la mega sanatoria che per anni vanificherà i benefici, è comunque esposta ad applicazioni distorte, in assenza di controlli, chi assicurerà davvero il possesso in capo ai funzionari scelti il possesso dei requisiti, visto che nel corso di questi anni sono stati assegnati incarichi a contratto appunto a persone che i requisiti imposti dall’articolo 19, comma 6, non li vedevano nemmeno col binocolo.




Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Fonte: ItaliaOggi

Più fondi e più tempo per ripianare i disavanzi extra creati nei conti comunali dalla sentenza della Consulta (n.80/2021) sul Fondo anticipazioni di liquidità. La dote di 500 milioni, prevista dal testo originario del decreto legge Sostegni bis (dl 73/2021), sale a 660 milioni. E si riconosce agli enti la possibilità di ripianare dal 2021 l’eventuale maggiore disavanzo, registrato al 31 dicembre 2019 e derivante dalla pronuncia della Corte, in quote costanti entro il termine massimo di 10 anni al netto delle anticipazioni rimborsate nel 2020. Questo il punto di caduta su un tema caldo che da fine aprile agita il mondo delle autonomie, impattando sui bilanci di almeno 900 comuni, di cui 456 a rischio concreto di default. La soluzione, che dovrebbe essere messa al voto oggi in commissione bilancio della Camera e potrebbe essere ulteriormente modificata con ritocchi dell’ultim’ora, è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti ANCI al decreto legge Sostegni bis. Emendamenti in cui l’Associazione dei Comuni, oltre a chiedere più risorse (1 miliardo in totale per il 2021) rispetto a quelle che l’esecutivo sembrerebbe voler riconoscere agli enti, puntava anche a modificare il limite attualmente previsto che circoscrive la possibilità di fruire dei fondi ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti.

L’ANCI aveva giudicato «del tutto arbitrario» tale paletto e aveva chiesto che venisse rimosso. Per il momento nel testo dell’emendamento che dovrebbe andare al voto in commissione non c’è traccia di questo dietrofront anche se non è escluso che su questo tema le richieste dei sindaci possano essere accolte. L’emendamento detta anche le istruzioni su come contabilizzare il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità a decorrere dall’esercizio 2021. Gli enti, spiega la norma, iscriveranno nel bilancio di previsione il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità «nel titolo 4 della missione 20 – programma 03 della spesa, riguardante il rimborso dei prestiti». A decorrere dal medesimo anno 2021, in sede di rendiconto, gli Enti locali ridurranno, «per un importo pari alla quota annuale rimborsata con risorse di parte corrente, il fondo anticipazione di liquidità accantonato». La quota del risultato di amministrazione liberata seguito della riduzione del fondo anticipazione di liquidità sarà iscritta in entrata del bilancio dell’esercizio successivo come «Utilizzo del fondo anticipazione di liquidità», in deroga ai limiti previsti dall’articolo 1, commi 897 e 898, dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2018 n. 145. Nella nota integrativa allegata al bilancio di previsione nella relazione sulla gestione allegata al rendiconto dovrà essere data evidenza della copertura delle spese riguardanti le rate di ammortamento delle anticipazioni di liquidità, che, precisa la disposizione, «non possono essere finanziate dall’utilizzo del fondo anticipazioni di liquidità». «In accordo con tutti i capigruppo della commissione bilancio, siamo al lavoro per inserire nel decreto Sostegni bis una norma in grado di valutare con maggior ponderazione gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale che interviene su un’area di comuni e, più marginalmente, di province e Città metropolitane, caratterizzati da maggior fragilità e rigidità degli equilibri di bilancio, sui quali deve essere definita una nuova politica di sostegno al risanamento finanziario, attraverso una più ampia riforma della disciplina delle crisi finanziarie», ha spiegato Roberto Pella, capogruppo di Forza Italia in quinta commissione e primo firmatario dell’emendamento. «Con questa proposta, anche in considerazione degli effetti dell’emergenza epidemiologica tuttora in corso, si permette il recupero dei disavanzi di amministrazione degli enti locali mediante l’allungamento dei rispettivi periodi di ammortamento. Grazie a questa norma per la quale è doveroso ringraziare anche il viceministro all’economia Laura Castelli, i Comuni potranno scongiurare il default e continuare ad assicurare ai cittadini l’erogazione di servizi che non avrebbero più potuto garantire se non si fosse intervenuti concedendo loro più tempo per risanare i debiti pregressi». L’intesa è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti Anci al decreto legge Sostegni bis. Resta ancora aperto il nodo del tetto che circoscrive la possibilità di fruire delle risorse ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti. Un tetto che l’ANCI aveva subito definito «del tutto arbitrario». Pella (FI): i comuni potranno continuare a garantire i servizi ai cittadini




GRANDE ADESIONE ALLO SCIOPERO PROCLAMATO DA FIADEL IN DATA ODIERNA

La protesta contro l’art.177 del Codice degli Appalti, che sortirà i suoi deleteri effetti a partire dal 31-12-2021, sollevata da FIADEL  – primo sindacato autonomo a livello nazionale del Settore Igiene Ambientale – ha raccolto, secondo i primi dati pervenuti dalle Segreterie territoriali, adesioni oscillanti fra il 70% e il 90%.

Grande soddisfazione da parte del Segretario Generale Francesco Garofalo, che ha dichiarato: “Grazie alla nostra capillare organizzazione territoriale siamo riusciti a coinvolgere un grandioso numero di lavoratori e lavoratrici occupati nelle aziende appaltatrici del settore Igiene Ambientale, richiamando l’attenzione sulla gravità di un provvedimento che, nel momento in cui entrerà in vigore, metterà a rischio decine di migliaia di posti di lavoro e pregiudicherà la qualità dei servizi resi alla cittadinanza. Ora il Governo deve farsi un esame di coscienza ed ascoltare le grida di allarme del mondo sindacale, per evitare il collasso del sistema della raccolta, dello smaltimento e del riciclo dei rifiuti, che, sarà la conseguenza più immediata dell’esternalizzazione obbligatoria delle attività per almeno l’80%.”

COMUNICATO UFFICIALE




Riflessioni sulla “nuova” mobilità

Fonte – Italia Oggi

La nuova mobilità senza nulla osta richiede 3 anni di permanenza presso l’ente dal quale il dipendente pubblico intende trasferirsi. L’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, nel sopprimere (con l’eccezione dei comparti sanità ed istruzione, pari a circa la metà del complesso dei dipendenti pubblici) il «previo assenso» alla mobilità (noto anche come nulla osta), prevede tre possibili (e non molto chiaramente definite) eccezioni. Tra esse, la circostanza che si tratti di «personale assunto da meno di tre anni». Detta previsione pone almeno due ordini di problemi: il coordinamento con le disposizioni circa l’obbligo di permanenza in servizio a seguito della prima assunzione e se per personale «assunto» possa intendersi quello che sia provenuto per mobilità. Obblighi di permanenza L’articolo 35, comma 5-bis, del d.lgs. 165/2001 dispone che «i vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni.  La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».

Per gli Enti locali, la norma è replicata dall’articolo 3, comma 5-septies del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014: «i vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi». E’ evidente che la previsione del d.l. 80/2021, che ritiene da applicare il nulla osta al personale assunto da meno di tre anni non sia perfettamente coordinata con le norme viste prima, ai sensi delle quali vi è un obbligo di permanenza nella sede di cinque anni. Si potrebbe sostenere che le norme non siano in contrasto tra loro. Infatti quelle sull’obbligo di permanenza sono riferite espressamente ai «vincitori dei concorsi»; sicchè si potrebbe concludere che i vincitori dei concorsi proprio non possono chiedere la mobilità prima dei cinque anni. Tutti gli altri dipendenti, invece, dovrebbero dimostrare di aver lavorato per almeno tre anni presso l’ente dal quale intendono trasferirsi. Tuttavia, pare possibile leggere la previsione del d.l. 80/2021 in termini più ampi e, cioè, come norma oggettivamente incompatibile con quelle precedenti e, come tale, essendo intervenuta su una medesima materia, capace di abrogare implicitamente tali norme precedenti.

Esigenze di di sistematicità e coerenza interpretativa lasciano preferire la seconda tesi e propendere, quindi, per l’abrogazione tacita del vincolo di permanenza nella prima sede successiva ai concorsi per cinque anni e per l’introduzione di un termine minimo di tre anni generalizzato, ai fini della mobilità. Cosa si intende per personale assunto Come si è visto, la normativa precedente riferisce l’obbligo di permanenza per cinque anni ai «vincitori di concorsi». Si è, quindi, sempre inteso che laddove un dipendente fosse stato assunto da un ente a seguito di mobilità in entrata, non fosse tenuto al vincolo di permanenza quinquennale. Il d.l. 80/2021, tuttavia, rimette il triennio minimo di lavoro presso un ente come requisito soggettivo perché non sia richiesto il nulla osta alla pura e semplice «assunzione»: locuzione che sintetizza la sottoscrizione tra un datore ed un lavoratore di un contratto di lavoro subordinato. Da questo punto di vista ogni attivazione di un rapporto di lavoro, qualunque sia lo strumento di reclutamento, concorso, corso-concorso, stabilizzazione o la stessa mobilità in entrata, è un’assunzione. Né deve trarre in inganno la circostanza che la mobilità tra enti soggetti a limitazioni al turnover sia neutrale sul piano finanziario e quindi non sia considerata «assunzione» sul piano giuscontabile: si tratta di una finzione giuridica, che non cancella il fenomeno dell’assunzione. Dunque, i tre anni minimi necessari a scongiurare il nulla osta valgono per tutti i dipendenti «assunti», a prescindere dal modo col quale siano stati assunti. Il triennio di permanenza minima è coerente con la durata triennale della programmazione dei fabbisogni lavorativi e fornisce alle amministrazioni un orizzonte minimo di durata della prestazione lavorativa e della programmazione operativa dei propri dipendenti.




Decreto Reclutamenti: i caratteri del Piano integrato di attività e organizzazione

Ai sensi dell’articolo 6 del Decreto Reclutamenti (d.l. n. 80/2021), le PA con più di cinquanta dipendenti dovranno adottare il Piano integrato di attività e organizzazione entro il 31 dicembre. Tale documento individua gli obiettivi della performance da raggiungere nonché le modalità attuative del processo di potenziamento del personale.
Il piano dura tre anni e dev’essere aggiornato annualmente; al suo interno, oltre al lato gestionale e organizzativo dell’ufficio, dev’essere presente il percorso di digitalizzazione e semplificazione amministrativa nonché la prevenzione anticorruzione. Una volta entrato in vigore il provvedimento in discorso, gli altri adempimenti in precedenza vigenti saranno aboliti entro 60 giorni. Successivamente, entro il 31 luglio, le giunte di Comuni e Province dovranno presentare ai consigli il Dup per il triennio 2022/2024. Subentra in questa fase la divisione tra sezione strategica, che sviluppa le linee programmatiche di mandato, e la sezione operativa, recante i principali atti programmatori dell’ente. Scopo del Dup è integrare gli strumenti di programmazione dell’ente, tra i quali il programma triennale di fabbisogno di personale. Qualora l’ente non riesca a sostituire i vecchi strumenti di programmazione entro il 31 luglio sarà costretto a ad adoperare la normativa precedente, dovendo comunque presentare il nuovo piano interato in consiglio entro il 15 novembre 2021. Ad ogni modo, dalla mancata adozione colpevole discende l’applicazione delle sanzioni ex articolo 10 del d.lgs 150/2009: nessuna retribuzione di risultati per i dirigenti che per inerzia o omissione non hanno adempiuto ai propri compiti, né tantomeno l’Amministrazione potrà assumere personale o conferire incarichi di consulenza o collaborazione.

Decreto Legge 9/6/2021 n. 80 (G.U. 9/6/2021 n. 136)

Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia

Articolo 6

Titolo I – RAFFORZAMENTO DELLA CAPACITÀ AMMINISTRATIVA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Capo I- Modalità speciali per il reclutamento per l’attuazione del PNRR e per il rafforzamento della capacità funzionale della pubblica amministrazione

Piano integrato di attivita’ e organizzazione

1. Per assicurare la qualita’ e la trasparenza dell’attivita’ amministrativa e migliorare la qualita’ dei servizi ai cittadini e alle imprese e procedere alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi anche in materia di diritto di accesso, le pubbliche amministrazioni, con esclusione delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, con piu’ di cinquanta dipendenti, entro il 31 dicembre 2021 adottano il Piano integrato di attivita’ e organizzazione, di seguito denominato Piano, nel rispetto delle vigenti discipline di settore e, in particolare, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 e della legge 6 novembre 2012, n. 190.

2. Il Piano ha durata triennale, viene aggiornato annualmente e definisce: a) gli obiettivi programmatici e strategici della performance secondo i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 10, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150; b) la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, anche mediante il ricorso al lavoro agile, e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali, finalizzati al raggiungimento della completa alfabetizzazione digitale, allo sviluppo delle conoscenze tecniche e delle competenze trasversali e manageriali e all’accrescimento culturale e dei titoli di studio del personale correlati all’ambito d’impiego e alla progressione di carriera del personale; c) compatibilmente con le risorse finanziarie riconducibili al Piano di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli strumenti e gli obiettivi del reclutamento di nuove risorse e della valorizzazione delle risorse interne, prevedendo, oltre alle forme di reclutamento ordinario, la percentuale di posizioni disponibili nei limiti stabiliti dalla legge destinata alle progressioni di carriera del personale, anche tra aree diverse, e le modalita’ di valorizzazione a tal fine dell’esperienza professionale maturata e dell’accrescimento culturale conseguito anche attraverso le attivita’ poste in essere ai sensi della lettera b); d) gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attivita’ e dell’organizzazione amministrativa nonche’ per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione; e) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare ogni anno, anche mediante il ricorso alla tecnologia e sulla base della consultazione degli utenti, nonche’ la pianificazione delle attivita’ inclusa la graduale misurazione dei tempi effettivi di completamento delle procedure effettuata attraverso strumenti automatizzati; f) le modalita’ e le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilita’ alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilita’; g) le modalita’ e le azioni finalizzate al pieno rispetto della parita’ di genere, anche con riguardo alla composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi.

3. Il Piano definisce le modalita’ di monitoraggio degli esiti, con cadenza periodica, inclusi gli impatti sugli utenti, anche attraverso rilevazioni della soddisfazione dell’utenza mediante gli strumenti di cui al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nonche’ del monitoraggio dei procedimenti attivati ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198.

4. Le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 del presente articolo pubblicano il Piano e i relativi aggiornamenti entro il 31 dicembre di ogni anno sul proprio sito istituzionale e lo inviano al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri per la pubblicazione sul relativo portale. 5. Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, con uno o piu’ decreti del Presidente della Repubblica, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono individuati e abrogati gli adempimenti relativi ai piani assorbiti da quello di cui al presente articolo.

6. Entro il medesimo termine di cui al comma 4, il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, adotta un Piano tipo, quale strumento di supporto alle amministrazioni di cui al comma 1. Nel Piano tipo sono definite modalita’ semplificate per l’adozione del Piano di cui al comma 1 da parte delle amministrazioni con meno di cinquanta dipendenti.

7. In caso di mancata adozione del Piano trovano applicazione le sanzioni di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ferme restando quelle previste dall’articolo 19, comma 5, lettera b), del decreto-legge 25 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. 8. All’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo le amministrazioni interessate provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.




Confermato lo sciopero dell’Igiene Ambientale del 30 giugno p.v.

IN ALLEGATO IL COMUNICATO DEL SEGRETARIO GENERALE DI CONFERMA DELLO SCIOPERO DI SETTORE DEL 30 GIUGNO P.V.

VOLANTINO




Il Report politico sindacale del Segretario Generale (I Semestre)

Il tradizionale Report semestrale del Segretario Generale è stato impostato in maniera innovativa, anche dal punto di vista grafico, con l’auspicio di facilitarne la lettura e renderla più gradevole agli occhi di tutti.

A breve, rà pèredisposto anche un documento di sintesi del Report, al fine di divulgarlo tra i lavoratori.

REPORT SEMESTRALE




Recovery Plan, il malessere dei Comuni e dell’ANCI

“In materia di Recovery Plan abbiamo una governance molto politica che coinvolge Ministeri competenti a seconda dei temi da trattare e più tutta la struttura che verrà incardinata dentro al Mef dal punto di vista finanziario. In questa governance il ruolo dei Comuni non c’è, non ci siamo nella cabina di regia”. Ad affermarlo è Veronica Nicotra, segretario generale ANCI, intervenendo al terzo Tavolo tecnico organizzato dal Centro studi Enti locali e dal dipartimento Economia e management dell’Università degli Studi di Pisa nell’ambito del progetto “Next Generation Eu-EuroPa Comune”.

“Ci sono stati – ha ricordato la rappresentante ANCI – i primi due decreti attuativi delle riforme prescritte dal Recovery (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), eppure siamo particolarmente preoccupati per l’assenza e mancanza di chiarezza rispetto alla finalizzazione delle misure. Abbiamo un totale di circa 87 mld che dovrebbero essere destinati a Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane”.
“Il Paese – ha concluso Veronica Nicotra – deve spendere una mole di risorse enorme rispetto al tempo assegnato: parliamo di 200 mld da spendere in un quinquennio ed è un’illusione. Sicuramente i Comuni sono i maggiori investitori pubblici del nostro Paese, ma vogliono sapere cosa devono fare, con quante risorse e quali sono le regole amministrative”.

Recovery Plan: i sindaci chiedono l’assegnazione diretta delle risorse ai Comuni

“Noi sindaci delle grandi Città, a nome dei sindaci di tutti i Comuni italiani riuniti oggi nel Coordinamento ANCI dei Sindaci metropolitani, ribadiamo la necessità di veder riconosciute direttamente ai Comuni e alle Città le risorse del PNRR“. Esordisce così l’appello rivolto dai sindaci delle Città metropolitane al premier Mario Draghi: è necessario, sostengono i firmatari, instaurare un canale politico diretto con la Presidenza del consiglio e un tavolo permanente politico per concretizzare il coinvolgimento dei sindaci, superando la cabina di regia prevista dal Decreto Semplificazioni, vero artefice dell’esclusione degli Enti locali.

La partecipazione diretta dei Comuni – L’insoddisfazione degli amministratori è dovuta all’insufficienza del “ruolo riservato dal Dl Governance e Semplificazioni a Comuni e Città metropolitane. Chiediamo di partecipare direttamente e senza intermediazione alla gestione di alcune missioni di progetti, perché in questi anni abbiamo dato ampia dimostrazione di saper gestire gli investimenti con efficacia ed efficienza. Chiediamo che i finanziamenti siano diretti e non necessariamente intermediati dalle Regioni, applicando modelli di gestione già sperimentati dal Governo in occasione del Patto delle Città Metropolitane e del Pon Metro.” I sindaci domandano inoltre che i riparti siano condotti mediante “assegnazione automatica per classe demografica, stanziamenti a sportello su programmi nazionali e il finanziamento di progetti cosiddetti bandiera.”

I pericoli della sovrapposizione istituzionale – L’appello prosegue sottolineando la necessità che ogni livello di governo si assuma la responsabilità delle misure e delle risorse assegnate, garantendo tempi ed efficienza per gli interventi; sarà altrimenti impossibile investire le risorse assegnate alle condizioni che pone la Commissione UE: “Vogliamo fare il nostro lavoro e il nostro dovere per spendere bene e rapidamente le risorse; non accettiamo di aspettare anni di burocrazia e procedure per sapere chi fa che cosa. I cittadini hanno l’esigenza di vedere cantierizzati al più presto i progetti, quale risposta concreta generata sui territori dalle risorse assegnate dal PNRR. L’Europa ci chiede di realizzare e rendicontare i progetti entro il 2026: senza reali semplificazioni e risorse dirette sarà molto complicato rispondere ad una sfida epocale come quella del PNRR. La sovrapposizione tra diversi livelli istituzionali rischia di allungare i tempi e confondere le responsabilità.”




Quote rosa: il problema del rispetto della parità di genere nei piccoli Comuni

Fonte: Gazzetta degli Enti Locali

Le “quote rosa” non hanno vita facile nel sistema degli Enti locali, soprattutto nei piccoli Comuni. Tra i Comuni al di sotto dei 5mila abitanti delle Regioni a statuto ordinario che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale, infatti, solo uno su due ha raggiunto l’obiettivo “quote rosa”. In ben 176 casi su 351 i candidati uomini hanno sforato il tetto dei 2/3 e in 63 Comuni hanno rappresentato percentuali superiori all’80% del totale. Caso limite Samo, in Calabria, dove si è raggiunta quota 100%. Tutto ciò affiora emerge da una elaborazione effettuata dal Centro Studi Enti Locali per l’Adnkronos, basata su dati del Ministero dell’Interno.

Il tema della parità di genere nei Piccoli Comuni
Il tema della rappresentazione femminile nelle liste elettorali dei Piccoli Comuni è stato recentemente portato all’attenzione del Consiglio di Stato che si è pronunciato, mediante l’ordinanza n.  4294/2021, sollevando la questione di costituzionalità per la legge che regola le elezioni nei Comuni fino a 5mila abitanti per mancato rispetto del principio della parità di genere. I candidati di sesso femminile hanno superato quelli appartenenti al genere maschile soltanto in 14 Comuni.
I due generi sono stati equamente rappresentati in 12 Comuni (2 Piemonte, 2 Basilicata, 2 Lombardia, 1 Marche, 1 Molise e 4 Piemonte), ma le buone notizie si fermano qui.
In tutti gli altri casi, ovvero nel 93% del totale degli enti al di sotto dei 5mila abitanti coinvolti nelle amministrative del settembre 2020 (solo Regioni a statuto ordinario), i candidati di sesso maschile hanno ampiamente superato quelli di sesso femminile. Globalmente le donne (2.602 su 8.162) hanno rappresentato il 31,8% del totale, leggermente al di sotto quindi del terzo dei candidati complessivi.

La normativa vigente in tema di parità di genere
Ma cosa prevedono le norme vigenti? Esistono 3 discipline differenti da applicare ad altrettanti scaglioni demografici, con regole sempre meno stringenti man mano che decresce la popolazione. Nel caso dei Comuni con più di 15mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in ciascuna lista in misura superiore a due terzi dei candidati ammessi. Ove questo non accada, la Commissione elettorale circondariale può ridurre le liste cancellando, partendo dall’ultimo, i nomi dei candidati appartenenti al genere sovra rappresentato. Nel caso in cui, dopo questa riduzione, il numero di candidati ammessi sia inferiore a quello minimo previsto, scatta la ricusazione della lista. Per gli Enti con popolazione compresa tra 5mila e 15mila abitanti, in caso di violazione delle disposizioni a tutela della parità tra sessi, la lista viene ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati. Per i Comuni con popolazione inferiore ai 5mila abitanti – che in Italia rappresentano circa il 70% del totale – la spinta verso la parità di genere è decisamente più leggera. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, l’unica previsione di riequilibrio di genere è contenuta nell’art. 2 della legge 215/2012 che dispone che “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”.
Non è quindi prevista, a oggi, come si può leggere sul Giornale dell’ANCITEL, alcuna misura sanzionatoria a carico delle liste che non assicurino almeno un terzo di donne tra candidati. Se la Consulta dovesse avallare la posizione del Consiglio di Stato, promuovendo l’estensione ai Comuni più piccoli delle previsioni valide per gli enti dai 5mila abitanti in su, i consigli comunali italiani potrebbero cambiare volto in misura significativa.




Varato in Consiglio dei Ministri il Decreto Reclutamenti

Il Consiglio dei ministri (n. 22) si è riunito venerdì 4 giugno 2021 a Palazzo Chigi per approvare alcuni importanti provvedimenti, tra cui spicca il Decreto Reclutamenti (LA BOZZA DI TESTO IN PDF), varato per dare operatività al piano di reclutamento nella PA decisivo per mettere a regime le attività di applicazione del Recovery Plan.

I punti-chiave del Decreto Reclutamenti

Come si legge nel comunicato emesso da Palazzo Chigi, il decreto segue quelli già approvati, relativi alla governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e alla semplificazione, e costituisce così il terzo pilastro dell’assetto normativo che consentirà la piena attuazione del Piano. Le norme introdotte definiscono percorsi veloci, trasparenti e rigorosi per il reclutamento di profili tecnici e gestionali necessari e pongono le premesse normative per la realizzazione delle due riforme trasversali previste dal PNRR: la pubblica amministrazione e la giustizia.

I due punti chiave del provvedimento:
– Rafforzamento della capacità amministrativa,
– Misure organizzative per l’attuazione del Recovery Plan (transizione digitale e innovazione organizzativa della giustizia).

Il personale elencato nel testo avrà contratti a tempo determinato, che potranno superare la classica durata triennale ma senza sforare il calendario dei progetti a cui sono collegati. Per essere valido, il contratto dovrà infatti indicare il progetto per il quale viene attivato; e potrà essere interrotto per giusta causa ex articolo 2119 del codice civile se non saranno raggiunti gli obiettivi intermedi o finali previsti dal progetto. Per gli altri ministeri serviranno «altre migliaia di persone», spiega Brunetta, assicurando però che «non ci sarà nessun assalto alla diligenza».




Corte dei conti: Rapporto 2021 sulla finanza pubblica

Il documento approfondisce l’andamento complessivo dell’economia, la politica fiscale con il dibattito sulla riforma dell’IRPEF, la spesa e le iniziative sociali nonché la situazione di tutti i settori coinvolti dalla crisi emergenziale.

Il crollo del 2020

La previsione della magistratura contabile, dopo le pesanti perdite registrate nel 2020, parla addirittura di un aumento del 4,5% del PIL: la crescita potenziale, infatti potrà essere potenziata sfruttando al meglio gli investimenti pubblici e favorendo le iniziative imprenditoriali, assicurando a tal fine riforme strutturali e sostenibilità infrastrutturale e ambientale. L’annualità passata, infatti, ha subito il crollo del saldo primario che ha comportato l’aumento di quasi 8 punti dell’indebitamento netto: il rapporto fra debito e prodotto ha dunque toccato quota 155,8%. Una situazione non rosea, commenta la Corte, risolvibile mediante la creazione di un contesto più trasparente ed efficiente con le riforme su giustizia, PA, ammortizzatori sociali e fisco. Nello specifico, la riduzione del debito sarà possibile solo preservando tassi di interessi contenuti e favorendo la crescita dello stock complessivo di capitale nell’economia: “ciò dipenderà – ammonisce la Corte – dalle caratteristiche qualitative degli investimenti programmati del PNRR”.

Sanità e Enti locali

Per quanto concerne invece l’IRPEF, si sostiene la convinzione che le ipotesi d’intervento sul tema dovranno guardare all’efficienza e all’equità del sistema tributario nel suo complesso. Difatti, non è possibile trascurare gli obiettivi strategici rappresentati dal contrasto all’evasione e dal processo di semplificazione. Il rapporto si conclude facendo riferimento all’ammontare delle prestazioni sociali in denaro, prova concreta dello sforzo profuso dalle istituzioni per mitigare gli effetti della pandemia. Nello specifico, la spesa sanitaria ha raggiunto i 125 miliardi (+6,7% rispetto al 2019) compensando, in parte, le mancate prestazioni e gli interventi finanziari minimi nel settore degli ultimi anni. Impossibile non menzionare, infine, l’intensa attività degli Enti locali, che fanno registrare oltre 69 miliardi di investimenti a fronte di un valore di progetti pari a 145 miliardi: allo stato attuale, l’importante quota di risorse del Pnrr affidata alle Amministrazioni territoriali sembra essere in buone mani.




2 giugno, una festa dai grandi significati civili e morali

“La Repubblica è stato un formidabile strumento di civiltà. Ed è un cantiere impegnato a progettare il futuro. Protagonisti ne sono e devono esserne, come è fondamentale in un sistema democratico, i cittadini”. Con queste parole il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto sottolineare il 75° anniversario della nascita della Repubblica Italiana.

Un concetto che è quantomai appropriato per tutti i settori della Pubblica Amministrazione, chiamati oggi ad assumere un ruolo cardine nel rilancio dell’Italia post-pandemica, come “alleata” di cittadini e imprese, facilitando la creazione di lavoro e l’innovazione e migliorando la qualità di vita di tutte le persone.

Come Organizzazione Sindacale rappresentativa, ci sentiamo fortemente impegnati a sostenere tutte le iniziative volte all’affermazione di questo principio, che dovrebbe essere insito nella natura e nei valori della Repubblica, ma troppo spesso è passato in secondo piano, come se la Pubblica Amministrazione avesse niente più di un ruolo di servizio.

La valorizzazione e il recupero della cultura del lavoro pubblico, dunque, sono passaggi essenziali per permettere alla PA di raggiungere il traguardo più elevato: proporsi come attore per lo sviluppo nazionale e territoriale.

In tale prospettiva, però, non bastano le leggi. Occorre anche la partecipazione convinta di tutti i lavoratori e lavoratrici.

L’occasione del 2 giugno mi è dunque propizia per rinnovare a tutte le strutture l’invito ad adoperarsi affinchè la base dei lavoratori dia la disponibilità a rendersi parte attiva di questo grande progetto, fermamente voluto dal nuovo Governo e da noi condiviso, purchè nel contempo esso tenga conto di tutti i legittimi interessi del personale delle amministrazioni centrali e locali, che non sono ristretti all’ambito salariale ma si estendono all’ottenimento di tutta una serie di garanzie e tutele che ancor oggi mancano nei contratti e che potranno metterli nelle condizioni di operare con la massima efficienza e produttività.

LAVORIAMO PER IL FUTURO DEI NOSTRI GIOVANI!




Decreto Sostegni bis: le norme di interesse per i Comuni

La nota esplicativa dell’ANCI relativa alle norme d’interesse dei Comuni contenute nel Decreto Sostegni bis, (decreto legge 25 maggio 2021, n. 73, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 123 del 25 maggio),  recante “Misure urgenti connesse all’emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali”. Il provvedimento verrà trasmesso alla Camera dei deputati in prima lettura per la conversione in legge.

 

Nota-sintetica-dl-Sostegni-bis




ISTAT: la digitalizzazione della PA procede, ma i Comuni sono in forte ritardo (e più sono piccoli, peggio è)

L’ISTAT conferma quanto ormai sappiamo da tempo. Dalla sua periodica rilevazione sull’utilizzo dell’ICT nelle PA locali è emersa un’alta percentuale di personale in servizio con accesso a internet e una ampia presenza di strumenti tecnologici. Tra i Comuni, tuttavia, non c’è grande disponibilità di strumenti tecnologici moderni. Solo il 60% infatti possiede una rete Intranet per il coordinamento comunicativo e informativo.

La diffusione delle competenze nelle PA
Nell’area organizzativa e strategica, sono davvero pochi i Comuni che investono nello sviluppo di competenze interne e nella formazione del personale in materia di tecnologie ICT: nel 2018 solo il 7,3% del personale ha partecipato ad attività formative in materia. Molto più diffuso il ricorso a società esterne. Sussiste però un buon livello nella gestione delle principali funzioni amministrative, nonostante ancora il 40% dei Comuni utilizzi ancora procedure analogiche. Si registra un generale miglioramento della disponibilità di strumenti online: oltre nove Comuni su dieci permettono di acquisire on line modulistica e quasi tutti (98,3%) forniscono online informazioni. Purtroppo, specie nei Comuni più piccoli, la diffusione dei servizi interamente online è ancora limitata. Le regioni nelle quali è più diffusa l’offerta dei servizi online sono Umbria, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto; tra quelle meno performanti, figurano la Valle d’Aosta, il Molise, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Calabria.

I servizi online offerti
La maggior parte dei servizi online adibiti dalle PA sono destinati alle imprese, sia tra i Comuni grandi che in quelli fino a 5mila abitanti. Ad ogni modo, l’offerta interattiva dei Comuni più piccoli si concentra su livelli di informatizzazione molto bassi. Nel 2018 è stato misurato per la prima volta un indicatore di risultato in termini di pratiche evase online sul totale: per i quattro servizi alle imprese analizzati, la gran parte dei Comuni che hanno dichiarato un’offerta online più matura e hanno indicato anche quote elevate di moduli ricevuti o di pratiche evase interamente online, con un’incidenza compresa tra il 71% e il 100% del totale dei moduli ricevuti e delle pratiche evase. Per quanto riguarda le modalità di accesso ai servizi, il 20,5% dei Comuni dichiara che, nel 2018, l’utenza può accedere ai servizi online attraverso l’identità digitale (Spid); per i Comuni più grandi (oltre i 60mila abitanti), tale quota sale al 58,2%, mentre è pari ad appena il 15,8% per quelli fino a 5mila abitanti. Il Censimento permanente delle istituzioni pubbliche è una rilevazione diretta, rivolta a tutte le istituzioni pubbliche e alle unità locali ad esse afferenti. Nella seconda edizione del Censimento, svolta nel 2018 sono state rilevate 12.848 istituzioni pubbliche, articolate sul territorio in 63.414 unità locali. Le informazioni raccolte permettono di cogliere il livello di digitalizzazione sotto questi profili, allargando il quadro all’insieme delle amministrazioni e delle istituzioni della PA. Tra i canali disponibili per acquisire informazioni, lo sportello fisico resta quello più utilizzato dalle unità locali di tutte le tipologie istituzionali. Fanno eccezione le Città metropolitane e l’Università pubblica, per le quali il canale più utilizzato è il sito istituzionale. Le unità locali delle Università pubbliche si confermano più digitalizzate delle altre tipologie istituzionali, consentendo di svolgere tutte le operazioni previste attraverso canali online.