Le assunzioni di personale nelle Comunità Montane

tratto da risponde.leggiditalia.it

Si chiede se il nuovo D.M. 17 marzo 2020, in materia di assunzioni di personale da parte dei comuni, sia o meno applicabile alle Comunità Montane (qualificate come unioni di comuni dall’art. 27 del TUEL). L’ambito soggettivo di applicazione di detta novella normativa, parrebbe limitato ai soli comuni e, infatti: – lo stesso D.M. 17 marzo 2020, nell’epigrafe, indica solo “il personale a tempo indeterminato dei comuni” e, nell’art. 1, co. 2, specifica che “Le disposizioni…, si applicano ai comuni…”, – l’art. 33, comma 2, D.L. 30 aprile 2019, n. 34, di cui il D.M. 17 marzo 2020 costituisce attuazione, si riferisce esclusivamente ai comuni e i commi precedenti sono riferiti alle regioni (comma 1) e alle province/città metropolitane (comma 1-bis). Orbene, se si esclude – per come sembrerebbe -l’applicabilità alle comunità montane/unioni di comuni della novellata normativa sulle capacità assunzionali dei comuni, qual potrebbe essere la normativa applicabile, se non quella precedente al D.M. 17 marzo 2020?

Per rispondere al quesito proposto, come giustamente segnalato, non possiamo che rifarci alla lettura della previsione normativa e pertanto evidenziare come quanto disciplinato dall’art. 33, comma 2, D.L. 30 aprile 2019, n. 34 e del D.M. 17 marzo 2020 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27 aprile 2020 (nonché quanto descritto nella successiva circolare applicativa) non è applicabile alle Unioni, ai Consorzi o alle Comunità Montane (come qualificati dal TUEL), ma esclusivamente ai Comuni.
Per ciò che concerne la seconda domanda posta all’attenzione, per le Unioni dei Comuni/Comunità montane non possono che applicarsi, in riferimento alla capacità assunzionale, le seguenti norme che non sono state in alcun modo abrogate (in attesa di eventuali e futuri interventi da parte del legislatore):
– il comma 229 dell’art. 1, L. n. 208/2015: “a decorrere dall’anno 2016, fermi restando i vincoli generali sulla spesa di personale, (…) le unioni di comuni possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 100 per cento della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell’anno precedente”;
– l’art. 32, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL) che prevede che “i comuni possono cedere integralmente o parzialmente i propri spazi assunzionali all’unione di cui fanno parte”.
Pertanto, appare chiaro come, oltre al 100% del turnover previsto dalla norma speciale di cui al comma 229 dell’art. 1, L. n. 208/2015, le unioni dei comuni potranno vedersi trasferire dai comuni facenti parte anche i nuovi “spazi di limite” come disciplinati dalla nuova normativa già richiamata.
In aggiunta a questi spazi, va ricordato che l’art. 33, comma 2, D.L. 30 aprile 2019, n. 34 e il relativo decreto ministeriale prevedono per i Comuni sotto i cinquemila abitanti che si collocano nella fascia virtuosa al di sotto della percentuale della Tabella 1, ma che non riescono con la capacità che ne deriva a completare nemmeno un’assunzione, un «bonus»: potranno cioè espandere fino a 38.000 euro la capacità assunzionale derivante dal loro calcolo, una-tantum e potendola sfruttare entro il 2024, a patto che l’assunzione sia effettuata dal Comune e che questo comandi poi l’unità in favore dell’Unione, che si farà carico del costo relativo.




Coronavirus: la quarantena equivale a periodo di malattia

Con il riaccendersi dei focolai Covid-19, torna di attualità una delle prime misure urgenti prese dal Governo con il decreto Cura Italia: i lavoratori che sono posti in quarantena per contenere il rischio di contagio da Coronavirus, hanno diritto alla prestazione lavorativa della malattia.

In pratica, i giorni trascorsi a casa (la quarantena dura 15 giorni) non si calcolano ai fini del superamento del periodo di comporto e vengono altresì retribuiti. Il riferimento è l’articolo 26, comma 1, del decreto 18/2020. Quanto previsto dal Legislatore riguarda il periodo trascorso in isolamento con sorveglianza attiva (persone che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva) o in permanenza domiciliare fiduciaria (cioè che hanno fatto ingresso in Italia da zone a rischio) dei lavoratori dipendenti.

La seconda definizione resta valida e si applica anche declinata in base a specifiche ordinanze locali legate al rischio di contagio da Coronavirus. In ogni caso, è il Dipartimento di prevenzione della Asl a disporre il provvedimento di quarantena o sorveglianza in base alle indicazioni che possono arrivare dalla persone stessa, dall’azienda o dai medici di base.

Questi ultimi redigono il certificato, specificando gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare. Il provvedimento può venire emesso dall’autorità sanitaria in relazione a una delle notizie sopra riportate.

Esempio: un lavoratore segnala di avere avuto un contatto stretto con un caso confermato di Covid. L’azienda provvede ad avvisare l’autorità sanitaria (ci sono appositi numeri di emergenza per il Covid-19 forniti dalla Regione o dal ministero della Salute) che a sua volta prende le contromisure indicate.

I medici di base hanno precise indicazioni da parte delle autorità e di conseguenza sanno esattamente quando prescrivere la quarantena. Ricordiamo che l’indicazione del ministero è quella di rivolgersi al medico di base, chiamandolo al telefono, evitando invece di andare in pronto soccorso o in ambulatorio. La quarantena, come è noto, dura 15 giorni.

Attenzione: sono considerati validi i certificati di malattia trasmessi, prima dell’entrata in vigore del decreto Cura Italia (quindi, prima del 17 marzo), anche in assenza dell’indicazione del provvedimento in base al quale si dispone la quarantena.

La quarantena equivale a un periodo di malattia. Ed è quindi retribuita di conseguenza. E non vale ai fini del periodo di comporto (il numero massimo di giorni in cui un lavoratore può stare a casa per malattia mantenendo il diritto al posto di lavoro).

Contatti a rischio

Specifichiamo cosa significa , in base alle indicazioni del Ministero della Salute:

  • persona che vive nella stessa casa di un caso di COVID-19;
  • una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso di COVID-19 (per esempio la stretta di mano);
  • persona che ha avuto un contatto diretto non protetto con le secrezioni di un caso di COVID-19 (ad esempio toccare a mani nude fazzoletti di carta usati);
  • persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso di COVID-19, a distanza minore di 2 metri e di durata maggiore a 15 minuti;
  • persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d’attesa dell’ospedale) con un caso di COVID-19 per almeno 15 minuti, a distanza minore di 2 metri;
  • operatore sanitario od altra persona che fornisce assistenza diretta ad un caso di COVID19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso di COVID-19 senza l’impiego dei DPI raccomandati o mediante l’utilizzo di DPI non idonei;
  • persona che abbia viaggiato seduta in aereo nei due posti adiacenti, in qualsiasi direzione, di un caso di COVID-19, i compagni di viaggio o le persone addette all’assistenza e i membri dell’equipaggio addetti alla sezione dell’aereo dove il caso indice era seduto (qualora il caso indice abbia una sintomatologia grave od abbia effettuato spostamenti all’interno dell’aereo, determinando una maggiore esposizione dei passeggeri, considerare come contatti stretti tutti i passeggeri seduti nella stessa sezione dell’aereo o in tutto l’aereo).

C’è una precisazione per i datori di lavoro: gli oneri connessi alla quarantena, per i quali si presenta domanda agli enti previdenziali, sono a carico dello Stato.

Sottolineiamo infine che sono diverse le regole che si applicano ai dipendenti in possesso del riconoscimento di disabilità grave (articolo 3, comma 3, legge 104/1992), nonché in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita: in questi casi, fino al 30 aprile, il periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero.




L’ARAN sulle prerogative dei sindacati non rappresentativi

Una organizzazione sindacale che pur non essendo rappresentativa ha nell’ente molti iscritti può chiedere il riconoscimento di diritti sindacali come informazione, accesso ai luoghi di lavoro per lo svolgimento di attività sindacale, uso locali, bacheca sindacale, fondando le proprie richieste sugli artt. 3 e 39 della Cost., sull’art. 14 dello Statuto dei Lavoratori e sull’art. 43, comma 12, del D.Lgs. 165/2001?
Le richiamate garanzie costituzionali sono state trasfuse a livello di legislazione nazionale nella L. 300/1970. Lo Statuto dei lavoratori, pur garantendo, con l’art. 14, a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, nel titolo III dedicato ai diritti e alle prerogative sindacali ne individua i titolari nelle RSA di cui all’art. 19 della legge citata. Pertanto, anche nello Statuto dei Lavoratori diritti sindacali come la bacheca (art. 25) e i locali (art. 27) non sono attribuiti a qualunque organizzazione sindacale ma esclusivamente a quelle a cui è consentito costituire le RSA (sul punto cfr. sentenza Corte Cost. n. 231/2013).
Nel settore pubblico, come noto, il rapporto di lavoro dei dipendenti è regolato dal D.Lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego) il quale all’art. 42, intitolato “Diritti e prerogative sindacali nei luoghi di lavoro” afferma che: “Nelle pubbliche amministrazioni la libertà e l’attività sindacale sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni. Fino a quando non vengano emanate norme di carattere generale sulla rappresentatività sindacale che sostituiscano o modifichino tali disposizioni, le pubbliche amministrazioni, in attuazione dei criteri di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) della legge 23 ottobre 1992, n. 421, osservano le disposizioni seguenti in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini dell’attribuzione dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro e dell’esercizio della contrattazione collettiva.”
Conseguentemente, come affermato dalla Corte di Cassazione sez. lavoro nella sentenza n. 3095 dell’8 febbraio 2018 “L’art. 42 (…) pur richiamando nell’incipit le tutele previste dalla legge n. 300 del 1970, obbliga le amministrazioni ad osservare «le disposizioni seguenti in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini dell’attribuzione dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro e dell’esercizio della contrattazione collettiva», disposizioni che regolano la materia in termini diversi rispetto al settore privato”.
Il requisito della rappresentatività sindacale, richiesto dall’art. 42 del D.Lgs. 165/2001 per poter accedere ai diritti e alle prerogative, è stato altresì ribadito nel CCNQ sulle modalità di utilizzo delle suddette prerogative stipulato, ai sensi dell’art. 50, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, il 7 agosto 1998 (ora sostituito dal CCNQ 4 dicembre 2017). Si rammenta, in proposito, che le amministrazioni sono tenute ad applicare i contratti collettivi sottoscritti dell’Aran ai sensi dell’art. 40, comma 4 del d.lgs. n. 165/2001.
Nel citato CCNQ del 4 dicembre 2017, all’art. 39, comma 1, si conferma nuovamente che “tutte le prerogative sindacali disciplinate nel presente contratto (…) ai sensi del d.lgs. 165/2001 e del D.M. 23 febbraio 2009, non competono alle organizzazioni sindacali non rappresentative…”.
Alla luce delle sopracitate considerazioni un sindacato non rappresentativo nel comparto di riferimento non ha diritto ad alcun diritto e prerogativa sindacale.
Quanto infine al richiamato art. 43, comma 12, del D.Lgs. 165/2001 si evidenzia che la norma fa riferimento al gruppo di disposizioni (dal comma 8 al comma 12) riguardanti la costituzione e il funzionamento del Comitato paritetico, organismo previsto dalla legge con la finalità di garantire modalità di rilevazione dei dati certe ed obiettive, chiamato a certificare i dati che saranno utilizzati dall’Aran per il calcolo della rappresentatività sindacale. Il comma 12, in particolare, va letto nel senso che tutte le organizzazioni sindacali i cui dati associativi ed elettorali nel corso delle periodiche rilevazioni sono stati raccolti dall’Aran e sottoposti alla verifica del Comitato paritetico hanno diritto ad adeguate forme di informazione e di accesso ai dati che le riguardano. L’esplicitazione di tale assunto è rinvenibile, da ultimo, nell’art. 7, comma 5, del Regolamento di funzionamento del Comitato Paritetico (2019 – 20121) del 7 febbraio 2018 che regola appunto le modalità di accesso ai propri dati per le organizzazioni sindacali non rappresentative e, quindi, non rappresentate con propri delegati all’interno del Comitato Paritetico.
Pertanto, il citato comma 12 dell’art. 43 del D.Lgs. 165/2001 non attiene all’informazione intesa come modalità relazionale. Quest’ultima, invece, è disciplinata dai singoli CCNL di comparto o area.



La Cassazione sulle sanzioni disciplinari espulsive e conservative

Il legislatore, con l’introduzione delle disposizioni di cui all’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001, pur facendo salva la disciplina generale in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, ha tipizzato specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare nel modo seguente:

  1. a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
  2. b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione;
  3. c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;
  4. d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera; e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;
  5. f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro;

f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell’art. 54, comma 3;

f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell’infrazione di cui all’art. 55-sexies, comma 3;

f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio;

f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’art. 3, comma 5-bis, D.Lgs. n. 150 del 2009.

Con tali disposizioni, precisano i giudici di legittimità, sono state introdotte fattispecie legali di licenziamento aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva. In questo caso il legislatore ha anche affermato con chiarezza, con il precedente articolo 55, comma 1, la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale; quest’ultima, quindi, non può essere più invocata ove in contrasto con la norma inderogabile di legge, venendo in tal caso sostituita di diritto da quest’ultima, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c.

In conclusione, per queste ipotesi tipizzate di licenziamento disciplinare, restano prive di effetto le clausole della contrattazione collettiva che prevedano una sanzione conservativa, anziché di natura espulsiva.

I poteri dei giudici di merito

Risolto il problema delle sanzioni espulsive tipizzate dal legislatore, restano da verificare le altre sanzioni disciplinari e i poteri dei giudici in presenza di una sanzione disciplinare conservativa prevista dalla contrattazione collettiva. In questo caso, precisano i giudici di Cassazione, le previsioni della contrattazione collettiva che individuano le fattispecie di licenziamento disciplinare non vincolano il giudice di merito, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale. Tale principio, tuttavia, subisce una eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento disciplinarmente rilevante unicamente una sanzione conservativa. In quest’ultimo caso, il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12, L. n. 604 del 1966). In altri termini, qualora alla violazione disciplinare del dipendente pubblico sia ricollegata dalla contrattazione collettiva una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti.

Pertanto, continua il giudice di legittimità, il giudice è vincolato dalla previsione del contratto collettivo che ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa. Di tale indicazione è proprio il legislatore a precisarlo, nel comma 2 dell’art. 55 del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui – salvo quanto previsto delle disposizioni dello stesso capo – la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi.




La responsabilità amministrativa dei dipendenti degli enti locali

Lo studio, a cura del Consigliere della Corte dei Conti Andrea Luberti, chiarisce i principali elementi della responsabilità amministrativa e contabile, anche alla luce delle più recenti novità normative e giurisprudenziali, con alcuni riferimenti   ai principali temi di diritto processuale.

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Assunzioni, occhio alle sanzioni

tratto da Italia Oggi del 21.08.2020
Illegittimo prevedere un ampliamento degli organici in violazione dei vincoli imposti
Il mancato rispetto dei vincoli alle capacità assunzionali comporta la soggezione al rischio di un referto negativo sulla gestione da parte della Corte dei conti e la progressiva riduzione delle assunzioni. Senza escludere possibili nullità delle assunzioni.
La combinazione delle previsioni contenute nell’articolo 33, comma 2, del dl 34/2019 e del dm 17.3.2020 pone una serie di obblighi o divieti in tema di assunzioni, non accompagnati da sanzioni esplicitamente disposte. L’assenza di sanzioni è in generale un difetto delle norme che impongono vincoli, poiché manca la spinta a rispettarli.
I comuni hanno gradito poco il nuovo sistema di disciplina delle facoltà assunzionali che, fondato sulla sostenibilità della spesa di personale in base alle entrate, per molti implica una riduzione delle assunzioni rispetto al sistema del turn over. Non rilevando sanzioni espresse, alcuni enti locali prendono in seria considerazione la possibilità di assumere comunque anche oltre i vincoli disposti dalla normativa.
A ben vedere, però, le sanzioni ci sono. Pensiamo ad un comune appartenente alla prima fascia e, quindi, in grado di incrementare il rapporto tra spesa di personale e media triennale delle entrate correnti al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità. Tale incremento non deve portarlo, però, ad andare oltre i valori soglia previsti dal dm 17.3.2020. Se, tuttavia, il comune sfora con assunzioni in più rispetto a quelle possibili, qual è la sanzione? È implicita: il comune passa dalla prima alla seconda fascia, alla quale appartengono i comuni il cui rapporto spesa/entrate sia superiore al valore soglia della prima fascia ed inferiore ai valori soglia della terza fascia.
Di conseguenza, il comune passato in seconda fascia non potrà più aumentare la spesa per assunzioni a tempo indeterminato e sarà soggetto al divieto di incrementare il valore del rapporto spesa di personale/entrate rispetto a quello corrispondente registrato nell’ultimo rendiconto della gestione approvato. Per tornare «virtuoso», quel comune dovrà ridurre la spesa di personale o incrementare le entrate.
Il comune di seconda fascia che violando il divieto visto prima si venga a trovare in terza fascia che conseguenze subisce? Quella di dover assicurare la riduzione annuale del rapporto spesa/entrate entro il 2025, in assenza della quale dal 2025 potrà assumere solo entro il 30% del turn over.
Il sistema contiene «disincentivi» a violare i suoi vincoli. Inoltre, laddove gli enti per rimediare al peggioramento del rapporto spesa di personale/entrate ritenessero di incrementare queste ultime, si espongono alla «sanzione» politica da parte dell’elettorato.
Per altro, l’ente che peggiora la propria situazione passando dalla prima alla seconda fascia o comunque non rispettando gli obblighi imposti agli enti della seconda e terza, vìola principi di gestione contabile, che dovrebbero essere precisati nel documento unico di programmazione.
Le conseguenze sono che i revisori dei conti dovrebbero negare il visto ad un Dup mirato a sforare i vincoli e a segnalare le assunzioni che peggiorano il rapporto spesa/entrate alla Corte dei conti.
Questa, in ogni caso, può valutare in sede di controllo sulla gestione il rispetto degli obiettivi di gestione connessi al personale ed esprimere un referto negativo inviato al consiglio, invitandolo ad adottare le azioni necessarie per rispettare i vincoli imposti dalla norma. Ed è evidente che a quel punto la reiterazione delle violazioni espone poi il comune ad azioni di responsabilità erariale.
Del resto, l’articolo 6 del dlgs 165/2001 dispone, al comma 2, che il piano triennale dei fabbisogni «indica le risorse finanziarie destinate all’attuazione del piano, nei limiti delle risorse quantificate sulla base della spesa per il personale in servizio e di quelle connesse alle facoltà assunzionali previste a legislazione vigente».
Dunque, prevedere un piano che vìoli i vincoli imposti dal sistema è un’ulteriore illegittimità. Che si presta ad una sanzione, in questo caso espressa, posta sempre dal medesimo articolo 6, comma 6: «Le amministrazioni pubbliche che non provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo non possono assumere nuovo personale». In apparenza, la disposizione colpisce la mancata adozione del piano triennale dei fabbisogni. Tuttavia, essa pare debba estendersi non solo al caso di assenza del piano, ma anche all’ipotesi di piano le cui previsioni vìolino i limiti alle facoltà assunzionali. Quindi, assunzioni in contrasto col nuovo sistema non sono da considerare del tutto al riparo da possibili rilievi di nullità.



Norme generali su RSU e RLS

ARTT. 42 E 43 DEL TUPI

ACCORDO COLLETTIVO QUADRO 1998

INTEGRAZIONI E MODIFICHE ACQ (2013) 

MODIFICHE ALL’ACQ PER LA COSTITUZIONE DELLE RSU (2015)  




Il Testo Unico sul Pubblico Impiego

Testo unico sul pubblico impiego (TUPI)

“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”

(D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165)

[Aggiornato al 30/06/2020]




ARAN: Monitoraggio contrattazione integrativa (luglio 2020)

L’ARAN ha pubblicato il Rapporto sul monitoraggio della contrattazione integrativa nel lavoro pubblico  che contempla le risultanze di sintesi dell’anno 2019 e l’analisi di dettaglio dell’anno 2018.

Rapporto ARAN




Decreto Agosto: novità per il lavoro e gli enti territoriali

Lavoro

Introdotto uno sgravio del 30 % sui contributi pensionistici per le aziende situate nelle aree svantaggiate, con l’obiettivo di stimolare crescita e occupazione. Il decreto finanzia la misura per il periodo ottobre-dicembre 2020, in attesa che questa venga estesa sul lungo periodo con prossimi interventi. Prolungati per un massimo di diciotto settimane complessive i trattamenti di cassa integrazione ordinaria, assegno ordinario e cassa integrazione in deroga previsti per l’emergenza.

Per le aziende che non richiederanno l’estensione dei trattamenti di cassa integrazione verrà riconosciuto l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali per un massimo di quattro mesi, entro il 31 dicembre 2020. Fino a tale data, vengono inoltre escluse dal versamento dei contributi previdenziali, per un massimo di sei mesi dall’assunzione, le aziende che assumono lavoratori subordinati a tempo indeterminato, in presenza di un aumento dell’occupazione netta. Per i datori di lavoro che non hanno integralmente fruito della cassa integrazione o dell’esonero dai contributi previdenziali resta precluso l’avvio delle procedure di licenziamento individuali e restano sospese quelle avviate dopo il 23 febbraio 2020.

Inoltre, si conferma la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo. Queste disposizioni non si applicano in caso di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa.
È possibile rinnovare o prorogare, per un periodo massimo di 12 mesi (fermo restando il limite complessivo di 24 mesi) e per una sola volta, i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato anche in assenza di causale.

Sono previsti ulteriori 400 euro per il reddito di emergenza per le famiglie più bisognose.

Prorogate per ulteriori due mesi la Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi) e l’indennità di disoccupazione mensile “DIS-COLL” per i collaboratori coordinati e continuativi il cui periodo di fruizione termini nel periodo compreso tra il 1° maggio 2020 e il 30 giugno 2020.

Aumentata di 500 milioni di euro per il biennio 2020-21 la dotazione del Fondo nuove competenze introdotto dal “decreto rilancio” (decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34) per la formazione e per favorire percorsi di ricollocazione dei lavoratori.

Enti territoriali

Sono stati incrementati i fondi istituiti dal decreto rilancio per far fronte ai minori introiti fiscali, salvaguardare gli equilibri di bilancio e garantire la regolarità dell’azione pubblica a tutti i livelli di governo.
In particolare:
• il fondo per l’esercizio delle funzioni degli enti locali è stato incrementato di 1,67 miliardi per il 2020. Le risorse complessive del fondo enti locali ammontano quindi a 5,17 miliardi (di cui 4,22 miliardi per i comuni);
• il fondo per l’esercizio delle funzioni delle regioni e delle province autonome è stato incrementato di 2,8 miliardi per il 2020. Le risorse complessive del fondo Regioni sono pari a 4,3 miliardi (2,6 miliardi per le Autonomie speciali e 1,7 per le Regioni a statuto ordinario).

Ulteriori risorse sono state destinate:
• al ristoro delle minori entrate dell’imposta di soggiorno, della TOSAP/COSAP e dell’IMU;
• al sostegno del trasporto pubblico locale, al sostegno degli enti locali in deficit strutturale e al contenzioso regionale;
• alla sospensione del pagamento delle quote capitale 2020 dei mutui MEF delle Autonomie speciali.
Infine, sono state rafforzate le misure per gli investimenti:
• per i comuni è previsto il raddoppio nel 2021 dei contributi assegnati per piccole opere e il rafforzamento delle misure per contributi per messa in sicurezza edifici e territorio;
• a favore degli enti locali è previsto l’incremento delle risorse destinate al finanziamento della progettazione definitiva ed esecutiva;
• per le province e le città metropolitane sono state previste risorse per la messa in sicurezza delle scuole.

Il decreto, infine, estende dal 20 settembre al 9 ottobre 2020 i termini per la concessione delle anticipazioni di liquidità degli enti locali, per favorire il pagamento dello stock di debiti al 31 dicembre 2019 nei confronti delle imprese, con benefici per l’intero sistema economico nazionale.




Licenziamento illegittimo: ammessa solo la reintegrazione

Il “decreto Madia” (d.lgs. n. 75/2017) ha modificato il T.U. del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, portando chiarezza e certezza sul regime del licenziamento disciplinare, a soluzione delle perplessità sorte dopo la “legge Fornero” (legge n. 92/2012).
Nelle pubbliche amministrazioni c’è, in qualunque caso di illegittimità del licenziamento, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, senza possibilità di scelte diverse per entrambe le parti.

Inoltre, eliminando qualunque riferimento all’art. 18 Stat. lav., è stato escluso il “rito Fornero”. Resta, come disposto già con la prima privatizzazione del 1993, un regime totalmente diverso per le cessazioni dovute a motivi oggettivi, che la legge chiama «risoluzioni» senza usare la parola «licenziamento».

Il “decreto Madia” attribuisce anche un potere officioso del giudice, senza domanda, di rideterminare la sanzioni in caso d’illegittimità del licenziamento per sproporzione: oltre qualche incertezza facilmente superabile, sorgono dubbi su questo potere d’ufficio d’andare oltre le domande delle parti. Alla fine bisogna dar atto, ancor di più per i regimi di licenziamenti e «risoluzioni», che il lavoro pubblico ha una disciplina completamente distinta e separata rispetto a quella privata, con impossibilità di confronti.

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Ad ulteriore specifica, è bene ricordare che all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Fornero (92/12) si è discusso se l’art. 18 riformato trovasse applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato oppure se dovesse continuare ad applicarsi l’art. 18 pre–riforma dello Statuto dei Lavoratori.
La tesi favorevole all’applicazione della norma, come riformata, argomentava perlopiù sul fatto che il rinvio di cui all’art. 51, comma 2, D.lgs 165/01 dovesse essere considerato come rinvio mobile.

Tuttavia vi era anche chi aveva osservato che, comunque, il licenziamento nel pubblico impiego avrebbe dovuto considerarsi nullo per contrarietà a norme imperative, applicandosi pertanto il primo comma dell’art. 18 “post–Fornero” e quindi, di fatto, le stesse conseguenze (reintegra) previste in base alla disciplina previgente.
La tesi contraria faceva leva, prevalentemente, su argomenti sistematici che avrebbero dovuto condurre a ritenere incompatibile l’opzione per una tutela meramente indennitaria con la disciplina del pubblico impiego seppur privatizzato.
Inoltre si faceva riferimento ai commi 7 e 8 dell’art. 1 L. 92/12, evocanti un futuro intervento normativo funzionale all’”armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Ulteriori problemi ha posto la legge c.d. sulle tutele crescenti. La questione, ormai non più attuale, era sorta per la mancanza di una espressa previsione tanto di inclusione quanto di esclusione del pubblico impiego dall’ambito di applicazione del D.lgs. n. 23/2015, silenzio suscettibile di opposte interpretazioni.

Dal punto di vista processuale, prima della riforma del 2017 (di cui al D.lgs n. 75/17), non vi erano dubbi, salvo ritenere ratione temporis (cioè per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015) applicabile la legge c.d. sulle tutele crescenti, sull’applicazione del rito di cui all’art. 1, commi 47 ss. L. 92/12.

Come confermato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 9 giugno 2016, n. 11868 – vedi oltre), infatti, restava “fuori dal tema dibattuto […] l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando nè nelle previsioni della L. n. 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) nè nel corpo normativo di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1, comma 47 della legge del 2012”.

Tutto ciò fino a quando il legislatore del 2017, con il D.lgs n. 75/17, intervenendo sull’art. 63 T.U. del pubblico impiego, non ha previsto un nuovo regime speciale di tutela contro i licenziamenti, disponendo che “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”

Il nuovo regime garantisce indubbi vantaggi al dipendente pubblico rispetto ai dipendenti del settore privato. Tuttavia, come è stato giustamente osservato, ciò non è vero in assoluto, poiché, se è vero che iI dipendente pubblico ha sempre diritto alla reintegra in caso di licenziamento invalido:
– è però svantaggiato in caso di licenziamento nullo o discriminatorio, per il quale, applicando l’art. 18 post – Fornero, avrebbe avuto il diritto alla reintegra piena senza il limite delle 24 mensilità.
– è inoltre svantaggiato in caso di vizi formali (salvo che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa), alla luce del dettato dell’art. 55 bis comma 9 tre T.U. P.I., secondo cui “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento”.

Con riferimento al rito applicabile, la novella del 2017 ha individuato, in materia di licenziamenti nel pubblico impiego, una tutela speciale e derogatoria delle norme comuni, che, anche se corrisponde (pur con alcune differenze), nella sostanza, alla disciplina di cui all’art. 18 pre–Fornero, non trova con l’art. 18 L. 300/70 alcun corrispondenza dal punto di vista formale.
In altre parole, poiché il rito Fornero si applica solo alle controversie in cui si invoca non una tutela reintegratoria ma, specificamente, l’art. 18 della L. 300/1970, nel pubblico impiego, dove quella disposizione non trova più applicazione, non troverà più asilo neanche il rito di cui all’art. 1 commi 47 ss. L. 92/12; viceversa il rito applicabile sarà quello “ordinario” del lavoro di cui agli artt. 409 ss. c.p.c.

Ma se, nonostante quanto evidenziato, l’impiegato pubblico licenziato impugna il recesso chiedendo tutela ai sensi dell’art. 18 St. Lav.? Valorizzando il principio dell’unicità dell’impugnazione del licenziamento, si ritiene che non si debba concludere per il rigetto della domanda, ma che il giudice, laddove ne ricorrano i presupposti, debba accordare la tutela prevista dalla legge applicabile (art. 63 T.U. pubblico impiego).

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Cassazione civile sez. lav., 09/06/2016, n.11868

Ad avviso della Corte di cassazione ai licenziamenti di cui sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 92/2012.

Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, nel commentare tale sentenza, ha affermato che si è di fronte ad una pronuncia equiparabile a quelle emesse dalla Sezioni Unite: infatti, la Sezione specializzata, precisa lo stesso Primo Presidente, dopo ampio e approfondito dibattito, ha assunto una decisione unanime, così superando la posizione contraria assunta dalla stessa Corte di Cassazione con sentenza n.24157/2015 e con esclusione, in definitiva, dei necessari presupposti per un’eventuale rimessione alle medesime Sezioni Unite.

Con tale sentenza, dunque, la Cassazione ritorna sulle argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo, secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012 non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti della pubblica amministrazione sino a un intervento di armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo 1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.

I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2, del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18 nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.

Con la sentenza in oggetto la Cassazione dichiara di non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento dell’articolo 51, comma 2, del testo unico alla legge 300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla data in cui è stata introdotta.

La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il permanere di una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura, privata o pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è presente, diversamente dal privato, la necessità di far prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon funzionamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato all’interesse collettivo.




Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori


ANALISI GIURIDICA DELL’ISTITUTO

Nel nostro ordinamento sono presenti alcuni limiti per il datore di lavoro relativamente all’attività di vigilanza e controllo che può esercitare sui propri dipendenti. Esistono, infatti, il diritto alla riservatezza, la dignità personale, la libertà di pensiero, di espressione e di comunicazione.
Sul luogo di lavoro tali diritti sono tutelati dal Legislatore con la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), in particolare con gli articoli 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo), 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) e 15 (Atti discriminatori).
Tale disciplina è stata riformatadal c.d. “Jobs Act”, che ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Prima della riforma (entrata in vigore il 24 settembre 2015), vigeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Tale divieto veniva meno solo nei casi in cui il datore di lavoro, per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, intendesse installare nuove apparecchiature dalle quali potesse derivare un controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti: in tal caso, era necessario il previo accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza, l’autorizzazione delle articolazioni locali del Ministero del Lavoro territorialmente competenti.

Il nuovo testo della norma pone in evidenza due aspetti:
1) da un lato, l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (quali impianti di videosorveglianza);
2) dall’altro, l’utilizzo di altri strumenti che il datore di lavoro assegna ai propri dipendenti per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, pc, telefoni, tablet), nonché gli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze.

1) I primi (impianti audiovisivi e strumenti di controllo a distanza) continuano, come in passato, a poter essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. Affinché la loro installazione ed il loro utilizzo sia considerato legittimo, è necessario che vi sia un accordo sindacale sulle modalità di utilizzo di tali apparecchiature (accordo stipulato, a seconda delle dimensioni dell’impresa, con le RSA o le RSU o con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale). Se tale accordo manca, il datore di lavoro deve ottenere la previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro (si rivolgerà all’uno o all’altro a seconda delle dimensioni dell’azienda).

2) La seconda parte della norma, invece, legittima l’esercizio di un controllo a distanza (c.d. diretto) effettuato sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per eseguire le proprie mansioni e sugli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (c.d. lettori badge). In questo caso, infatti, non c’è l’obbligo per il datore di lavoro di raggiungere una intesa sindacale o di ottenere l’autorizzazione ministeriale: il controllo è libero e può essere effettuato anche senza un’esigenza organizzativa o produttiva. In assenza di qualsiasi funzione di “filtro” attribuita alle organizzazioni sindacali o alla vigilanza del Ministero del Lavoro per mezzo della Direzione Territoriale del Lavoro, è il singolo lavoratore che dovrà verificare se il controllo è esercitato dall’imprenditore in modo legittimo ed eventualmente recarsi presso un sindacato o un legale per tutelare i propri diritti.

Oltre alla normativa giuslavoristica, il Datore di lavoro dovrà rispettare anche tutto l’impianto normativo relativo alla protezione dei dati personali, costituito dal Regolamento Europeo 2016/679, dal Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) e dai provvedimenti emessi nel corso degli anni dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Per non incorrere in sanzioni penali e civili il Datore di Lavoro dovrà mettere in atto delle corrette procedure interne per la gestione di tali dati, in primo luogo dovrà rispettare il dettato normativo dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che prevede, al comma III, la possibilità di raccogliere le informazioni mediante gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e di poterne disporre per tutti i fini connessi al relativo rapporto, purché sia stata fornita adeguata informazione al lavoratore sulle modalità d’uso dei dispositivi stessi e sui possibili controlli, il tutto nel rispetto dei principi sanciti dalla normativa vigente in tema di privacy.

Il datore di lavoro dovrà pertanto essere in grado di dimostrare come l’utilizzo delle tecnologie informatiche non rientri in un programma volto esclusivamente al controllo dell’attività del lavoratore. È bene ricordare che il controllo a distanza non sussiste solamente in presenza di impianti di videosorveglianza, ma anche in presenza di attività quali “la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate”, come ribadito anche da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 28.05.2018 n.13266).
L’uso degli strumenti di controllo dev’essere sempre contenuto nella portata e proporzionato.

Affinché il controllo a distanza possa ritenersi legittimo e i dati così acquisiti siano utilizzabili, è fondamentale fornire ai dipendenti un’informativa esaustiva in ordine all’uso degli strumenti aziendali, ai dati trattati, al loro utilizzo e conservazione, nonché circa le modalità con cui vengono eseguiti i controlli, che i controlli non abbiano ad oggetto l’attività lavorativa del dipendente e che siano effettuati ex post, a seguito del verificarsi di un comportamento illecito del lavoratore o comunque per la verifica di un’anomalia del sistema informatico. Non è infatti consentito un accesso indiscriminato al datore di lavoro agli strumenti informatici in uso al lavoratore.

I lavoratori devono essere sempre previamente informati del possibile controllo datoriale sulle loro comunicazioni anche via internet; per questo motivo diventa fondamentale adottare una privacy policy adeguata e calata nello specifico contesto e sarà perciò compito del datore di lavoro fornire al lavoratore una adeguata informativa relativa il trattamento dei dati personale (ex art. 13 Regolamento Europeo 2016/679).
Qualora il Datore di Lavoro contravvenga alle prescrizioni previste dal GDPR o dallo Statuto dei Lavoratori, potrà incorrere in sanzioni di carattere amministrativo e penale.

Trattamento dei dati biometrici: che cosa prevede il GDPR

A disciplinare il trattamento dei dati biometrici per applicazioni di controllo accessi e rilevazione presenze sono il GDPR – General Data Protection Regulation e il successivo decreto italiano di adeguamento (D.lgs. 101/2018).

L’art. 9, par. 1, del GDPR vieta – in linea generale – il trattamento dei dati biometrici, fatte salve alcune eccezioni. La prima eccezione prevede che l’interessato abbia autorizzato il trattamento.

Seguono, poi, altre eccezioni, che consentono l’utilizzo dei dati biometrici solo se necessario in ambito lavorativo o nell’ambito della sicurezza sociale e collettiva; se necessario per la protezione di un interesse vitale dell’interessato o di altra persona; se necessario in un procedimento giudiziario; se vengono rilevati particolari motivi di interesse pubblico o per motivi di sicurezza sanitaria, controllo e prevenzione di malattie trasmissibili e per la tutela di gravi minacce per la salute delle persone fisiche.

La seconda eccezione, in particolare, giustifica la presenza di sistemi basati su riconoscimento dei dati biometrici in ambito lavorativo per l’accesso ad “aree critiche”: pensiamo, ad esempio, a quelle zone, all’interno di una grande industria, in cui sono presenti macchinari dall’utilizzo pericoloso per i non addetti ai lavori oppure ai laboratori speciali all’interno degli ospedali, alle torri di controllo e alle aree speciali degli aeroporti o ai caveau delle banche.

Si tratta, in tutti i casi, di zone critiche, il cui ingresso deve essere protetto da un controllo accessi severo e altamente affidabile come quello di tipo biometrico. Che cosa accade, quindi, nel caso in cui si decida di adottare la tecnologia biometrica negli Uffici della Pubblica Amministrazione?

Videosorveglianza e biometria nella Pubblica Amministrazione: il NO del Garante Privacy 

La Legge Concretezza (19 giugno 2019, n. 56) in tema di “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo”, aveva previsto, oltre a misure volte a migliorare le capacità e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, diversi interventi per la prevenzione dell’assenteismo: impronte digitali a sostituzione del badge e, in più, l’installazione di telecamere di videosorveglianza a varchi di acceso. Più nel dettaglio, la Legge prevede che l’identificazione del dipendente avvenga tramite il riconoscimento delle impronte digitali, controlli dell’iride o riconoscimento vocale, sia in entrata che in uscita.

Chiamato a esprimere il proprio parere sullo schema di decreto riguardante, nello specifico, la prevenzione dell’assenteismo, il Garante della Privacy ha dichiarato che l’accoppiata rilevazioni biometriche- sistemi di videosorveglianza è “di dubbia compatibilità con le regole della Privacy europea e nazionale”.  

Relativamente all’adozione di telecamere di videosorveglianza per il controllo dei varchi, manca la proporzionalità tra tale misura e le esigenze organizzativo-produttive, di sicurezza sul lavoro e di tutela del patrimonio aziendale previste dal Provvedimento del Garante della Privacy del 2010, dallo Statuto dei Lavoratori, nonché dalla circolare n. 5/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Riguardo, invece, all’utilizzo di sistemi biometrici, mancano i presupposti indicati dal GDPR, ovvero fattori di rischio specifici, la presenza – e il ripetersi – di situazioni critiche, che potrebbero arrecare danno alle persone, all’ambiente e al patrimonio.

Insomma, secondo l’Autorità Garante, la motivazione “prevenzione dell’assenteismo” non regge, non giustifica la scelte di telecamere e di sistemi biometrici nella Pubblica Amministrazione. Tale scelta sembra, invece, andare verso il “controllo” del lavoro e dei comportamenti dei lavoratori, tassativamente vietato dalla normativa italiana e internazionale in tema di Privacy.

 




La riforma della Pubblica Amministrazione (2019)

Scheda di sintesi elaborata dal Servizio Studi della Camera dei Deputati sulla legge 56 del 2019 (Legge Concretezza) che contiene specifiche misure tese a migliorare l’azione della pubblica amministraazione

Riforma Pubblica Amministrazione




Sentenze recenti sulle mansioni superiori nel pubblico impiego

La sintesi delle massime di alcune sentenze emanate da diversi organi giudicanti in materia di mansioni superiori

  1. Pubblico impiego: presupposti per l’esercizio di mansioni superiori

T.A.R. Napoli, (Campania) sez. V, 03/01/2019, n.32

Nel pubblico impiego, ai fini del possibile esercizio di mansioni superiori costituisce presupposto indefettibile l’esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte e, inoltre, la sussistenza di atto formale di incarico o investimento di dette funzioni proveniente dall’organo amministrativo a ciò preposto.

2.  Svolgimento di mansioni superiori: differenze retributive e condizioni

Consiglio di Stato sez. III, 23/05/2019, n.3372

Nell’ambito del pubblico impiego il legislatore ha individuato specifiche e definite condizioni alle quali ha inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate; in particolare, per il personale amministrativo del comparto sanità l’art. 29 comma 2, d. P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, ha consentito una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti in modo concomitante:

a) le mansioni devono essere svolte su un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di fatto vacante;

b) su tale posto non deve essere stato bandito alcun concorso;

c) l’organo gestorio deve aver attribuito la supplenza con una formale deliberazione, proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore straordinario), dopo aver verificato i presupposti indicati in precedenza, assumendosene tutte le responsabilità, anche in ordine ai profili di copertura finanziaria con numerosi richiami giurisprudenziali ulteriori; al contrario non assumono rilevanza i meri ordini di servizio o lo svolgimento di mansioni fondato su una mera scelta organizzativa dell’amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita.

3.  Svolgimento di fatto di mansioni superiori: condizioni per il diritto al compenso

Cassazione civile sez. VI, 24/01/2019, n.2102

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.

4.  Accertamento dello svolgimento di mansioni superiori

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2019, n.18901

Nel pubblico impiego contrattualizzato, il giudicato di accertamento dello svolgimento di mansioni superiori non comporta l’acquisizione della miglior qualifica, ma solo la condanna al pagamento delle differenze retributive, sicchè esso ha efficacia vincolante anche per i periodi successivi solo se il lavoratore, immutata la disciplina collettiva, alleghi e provi il reiterarsi delle mansioni superiori anche in detto arco temporale.

5.  Svolgimento di mansioni superiori: dà sempre diritto alla superiore retribuzione?

Consiglio di Stato sez. V, 27/03/2018, n.1913

Nel pubblico impiego è la qualifica – e non le mansioni – il parametro cui la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l’assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97 Cost, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica: conseguenza è che l’Amministrazione pubblica è tenuta ad erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori solo se una norma speciale consenta tali assegnazioni e la maggiorazione retributiva.

6.  Verifica dei requisiti di ammissione per la progressione verticale

Tribunale Castrovillari sez. lav., 14/01/2019, n.38

In tema di pubblico impiego, nel reclutamento concorsuale di personale interno, ai fini della verifica dei requisiti di ammissione per la progressione verticale, vengano considerate le sole mansioni (di rilievo nel bando) che il candidato ha svolto all’interno ed in conformità della sua qualifica di appartenenza, senza poter aliunde valorizzare mansioni svolte di fatto per profili diversi da quelli retributivi, all’interno peraltro di un esplicito disfavore normativo verso tale istituto; inoltre, ove mai disposizioni contrattuali si riferiscano a mansioni superiori “certificate”, esse parimenti non ricomprendono le mere mansioni superiori di fatto, ma richiedono un quid pluris, atteso che laddove si richiede una certificazione relativa ad un rapporto di impiego pubblico contrattualizzato con una pubblica amministrazione, detta certificazione non può che riguardare lo stato di diritto e non già quello di fatto del rapporto o di suoi specifici aspetti.

7.  Aziende sanitarie: possono istituire posizioni dirigenziali?

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2018, n.30811

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, le aziende sanitarie possono istituire posizioni dirigenziali che, senza attribuzione di responsabilità della struttura, semplice o complessa, comportano l’assegnazione di incarichi di tipo esclusivamente professionale, caratterizzati dall’affidamento di compiti con precisi ambiti di autonomia tecnico-professionale, da esercitare nel rispetto degli indirizzi dati dal dirigente responsabile della struttura, nonché dalla collaborazione con quest’ultimo e dall’assunzione di corresponsabilità quanto alla gestione dell’attività professionale.

Pertanto, l’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, prevista dall’atto aziendale e dal provvedimento di graduazione delle funzioni, costituisce espletamento di mansioni superiori, rilevante ai fini e per gli effetti previsti dall’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, la cui applicazione non è impedita dal mancato espletamento della procedura concorsuale, dall’assenza di un atto formale e dalla mancanza della previa fissazione degli obiettivi, che assume rilievo, eventualmente, per escludere il diritto a percepire anche la retribuzione di risultato.

8.  Sostituzione nell’incarico di dirigente medico del Ssn

Corte appello Reggio Calabria sez. lav., 01/02/2019, n.22

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del S.S.N., ai sensi dell’art. 18 del c.c.n.l. dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000, non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l’art. 2103 c.c. e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solo la prevista indennità cd. Sostitutiva.

9.  Aumento stipendiale per lo svolgimento di mansioni superiori

Consiglio di Stato sez. III, 26/11/2018, n.6662

In tema di pubblico impiego, ai sensi dell’art. 29, co. 2, del D.P.R. n. 761/1979, è consentita una variazione stipendiale, nell’ipotesi di svolgimento di mansioni superiori per più di sessanta giorni, soltanto in presenza di un posto vacante e, inoltre, purchè sia stato preventivamente adottato dall’organo competente un atto formale di incarico, valido ed efficace, non essendo invece necessario che per tale posto venga bandito uno specifico concorso.

10.  Retribuzione degli impiegati pubblici

T.A.R. Venezia, (Veneto) sez. II, 09/05/2018, n.494

Nell’ambito del pubblico impiego, il parametro cui riferire la retribuzione è la qualifica, e non la mansione, pertanto la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori soltanto nel caso in cui una norma speciale consenta tali assegnazioni e la maggiorazione retributiva.




Covid-19: le disposizioni adottate da Governo e Regioni per la Fase 3

Utilissimo documento elaborato da Nomos Centro Studi Parlamentari, che riepiloga tutte le norme emanate duerante lo stato di emergenza fino al 15 giugno.

Speciale Covid-19 le disposizioni adottate da Governo e Regioni per la Fase 3