Progressioni verticali: non è ammesso il “doppio salto”

Come evidenziato dalla Gazzetta degli Enti Locali, il rilancio delle progressioni verticali operato dall’articolo 3, comma 1, del d.l. 80/2021, che modifica l’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs. 165/2001, non lascia spazio alla possibilità di far effettuare una progressione verticale con un balzo in avanti di due categorie, ovvero saltando la categoria che sta in mezzo tra quella di partenza e quella di arrivo (ad es. dalla B3 alla D).

Secondo alcuni questo salto sarebbe ammissibile in quanto la norma non lo vieta espressamente. Ma, come giustamente osservato dall’autore dell’articolo, l’ordinamento amministrativo considera legittimi solo gli istituti che disciplina in via espressa e tipica.

Essendovi comunque la necessità di arrivare a una conclusione certa, l’autore porta una serie di argomentazioni, come di seguito indicato.

Le progressioni verticali sono con ogni evidenza un sistema di vero e proprio reclutamento alternativo a quello del concorso pubblico. Le pubbliche amministrazioni hanno la possibilità, cioè, di coprire alcuni posti liberi nell’ambito del fabbisogno senza rivolgersi al “pubblico”, ma fornendo ai propri dipendenti l’opportunità di uno sviluppo di carriera, evidentemente fondato sulla maturazione della consapevolezza che tra i propri dipendenti sono maturate esperienze e competenze meritevoli dell’ascesa verticale.

È proprio questo l’elemento da tenere in specifica considerazione. La tesi opposta secondo la quale il salto sarebbe ammissibile trae altra argomentazione per sostenere le proprie ragioni dall’esame del mero possesso del titolo di studio. Si afferma, quindi, che laddove un dipendente in categoria B3 disponga della laurea, potrebbe per ciò solo concorrere alla progressione verticale.

Sfugge a questo modo di leggere le norme che in capo al dipendente, per quanto dotato del titolo di studio in astratto utile all’inquadramento in categoria D, manchi del tutto anche la sola possibilità di una valutazione dello svolgimento delle proprie attività tale da evidenziare un potenziale adeguato alla progressione.

Guardiamo i criteri di valutazione imposti dalla norma, ai fini della procedura comparativa da svolgere per selezionare i meritevoli del passaggio verticale:

  • la valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni di servizio,
  • l’assenza di provvedimenti disciplinari,
  • il possesso di titoli professionali e di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area,
  • il numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti.

Occorre, allora, porsi una domanda: quale utilità può avere, per la collocazione in D, la valutazione per attività connesse alla categoria B3; quali incarichi connesse alla categoria B3 stessa possono considerarsi minimamente comparabili utili e rilevanti, per reputare il dipendente come potenzialmente in grado di ascendere direttamente alla categoria D, senza passare dalla C? La risposta oggettiva è una sola: nessuna utilità.

Una progressione per saltum è all’evidenza solo una forzatura, che spesso per altro nasconde un chiaro favoritismo nei confronti di individuati dipendenti in apertissima violazione dei criteri anticorruzione posti dal Piano Nazionale 2013.

Il dipendente di categoria B che intenda ascendere alla D, per altro, ha aperte ben due strade. La prima: quella della progressione verticale nel medesimo ente, in successione dalla C alla D. Ci vuole tempo, certo, ma è esattamente quel richiedono legge e, prima ancora, logica. La seconda: partecipare ad un concorso pubblico per l’assunzione nella categoria D.

In conclusione, è d’obbligo evidenziare, comunque, che il divieto della progressione per saltum non è una lettura capricciosa di qualche interprete intento a tarpare le ali dei dipendenti pubblici. Essa si fonda, come visto, su evidenze normative inconfutabili.

In ogni caso, detto divieto trova un suo autorevole fondamento non normativo, bensì interpretativo, nelle sentenze della Corte Costituzionale 1/1999 e 194/2002, che richiama la prima.

La prima sentenza censura una procedura di concorso interno che non solo aveva riservato al personale interno il 100% dei posti disponibili, ma utilizzando l’escamotage di corsi, per altro dai contenuti formativi ignoti, come strumento di cooptazione, aveva esteso la promozione anche a dipendenti di due categorie inferiori, che avessero partecipato a detti corsi.

Anche il Ministero dell’interno, col parere ad oggetto “Progressione verticale personale EE. LL. – Art. 4, commi 1 e 2, del C.C.N.L. del 31 marzo 1999”, ha espresso la propria contrarietà al doppio salto: “la giurisprudenza costituzionale (…) non ha escluso la compatibilità delle progressioni interne dei dipendenti della pubblica amministrazione, purché le stesse siano conformi ai principi costituzionali, identificati dalla stessa Corte Costituzionale. Tali principi, estrapolati dal contenuto delle sentenze della Corte stessa, sono sostanzialmente identificabili nel divieto di procedere a progressione di soggetti non appartenenti alla qualifica immediatamente inferiore (c.d. principio del divieto del doppio salto) e nel rispetto delle regole generali di buon andamento della pubblica amministrazione, così come enucleate dall’art. 35 del decreto legislativo 30.3.2001, n. 165, che si riferiscono, in sostanza, all’obbligatorietà dello svolgimento di procedure selettive volte all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura adeguata l’acceso dall’esterno; peraltro, quest’ultima, valutata dalla Corte stessa, non irragionevole, se rapportata alla riserva del 50% dei posti da coprire (sent. 234/94)”.

Infine, il divieto del doppio salto è enunciato e rilevato dalla giurisprudenza amministrativa costante, come ad esempio Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18 marzo 2010, n. 1604.

 

 




Solo il sindaco può emanare l’ordinanza contingibile e urgente

L’ordinanza contingibile e urgente sottoscritta da un dirigente è illegittima in quanto viziata da incompetenza. Alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale solo il sindaco, in qualità di ufficiale di governo, è dotato di tale potere, non delegabile, peraltro, a soggetti diversi dall’Amministrazione comunale, anche in considerazione del fatto che al dirigente in questione sono attribuiti solo compiti di ordinaria gestione del patrimonio comunale che non contemplano in nessun modo l’adozione di provvedimenti extra ordinem a tutela della sicurezza. Sono queste le conclusioni cui è giunto il TAR Campania, Sez. V, mediante la sentenza dell’8 luglio 2021, n. 4693.

L’istante ha impugnato le ordinanze con le quali il funzionario comunale responsabile del servizio igiene e sanità, sulla base del verbale di sopralluogo effettuato dalla Polizia municipale, ha ordinato di provvedere alla pulizia radicale del fondo di cui l’istante è proprietaria mediante il taglio delle erbacce e degli arbusti selvatici, entro il termine perentorio di 20 giorni dalla notifica. Il Collegio ha ritenuto di dover accogliere il ricorso soprattutto alla luce dell’illegittimità dei gravati provvedimenti per l’incompetenza del dirigente responsabile dell’emanazione. Assume infatti rilievo l’esercizio della potestà di ordinanza riservato, dall’articolo 54 del TUEL, espressamente al sindaco. Dunque le determinazioni comunali così assunte soffrono il vizio di incompetenza, per cui s’impone l’annullamento delle stesse.

 

IL TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA




Assunzioni pubbliche: restrizioni per gli enti “non virtuosi”

La Sezione controllo per la Sicilia della Corte dei conti ha rilasciato la deliberazione 9 novembre 2020, n. 131, in cui definisce i limiti di libertà di assunzione per gli enti che registrano eccessive spese per il personale.

A questi non è del tutto impedito stipulare contratti a tempo indeterminato, ma devono agire in modo tale da rispettare i parametri di sostenibilità stabiliti ad hoc. Di seguito si riporta la massima ricavata dal testo della deliberazione.

“Gli enti caratterizzati da elevata incidenza della spesa di personale sulle entrate correnti secondo le disposizioni di cui all’art. 33, comma 2, del d.l. n. 34 del 2019 (Decreto Crescita), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58 e del relativo decreto attuativo del 17 marzo 2020 (c.d. “non virtuosi”) non sono, per ciò solo, privati di ogni facoltà di effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato, ma l’entità dei relativi spazi assunzionali deve essere determinata in misura tale da risultare compatibile con il percorso di graduale riduzione annuale del rapporto di sostenibilità finanziaria che gli stessi sono chiamati a compiere”.

 

 IL TESTO DELLA DELIBERAZIONE DELLA CORTE DEI CONTI (SEZ. SICILIA) 9 NOVEMBRE 2020, n. 131.




NO alla trasformazione implicita dei rapporti da tempo determinato a indeterminato

La Corte Costituzionale, con la sentenza 21 luglio-2 settembre 2020, n. 199, sancisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 della L.R. Sicilia n. 1/2019 che prevedeva il mantenimento in servizio, senza termine finale, del personale precario adibito al servizio antincendio boschivo regionale. Per la Corte Costituzionale una proroga dei contratti del personale precario, senza l’indicazione di alcun termine di durata, determina la trasformazione dei contratti di lavoro in rapporti di impiego a tempo indeterminato, in aperto contrasto con l’art. 97, quarto comma, della Costituzione (“Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”).

Secondo il Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha impugnato la norma, la disposizione è incompatibile con la disciplina contenuta nell’art. 20 del D.Lgs. 75/2017 e con il principio dell’adeguato accesso dall’esterno, che costituisce un precipitato della previsione di cui all’art. 97, quarto comma, della Costituzione.

Il principio del pubblico concorso per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, quando l’intento è di valorizzare esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione, può andare incontro a deroghe ed eccezioni, attraverso la trasformazione delle posizioni di lavoro a tempo determinato, già ricoperte da personale precario dipendente, a condizione che sia assicurata la generalità della regola del concorso pubblico e che l’area delle eccezioni sia definita in modo rigoroso (sentenze della Corte Costituzionale n. 9/2010, n. 215/2009 e n. 363/2006).

Secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, il concorso pubblico costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento per le amministrazioni pubbliche, quale strumento per assicurare l’efficienza, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (ex plurimis sentenze n. 36/2020, n. 40/2018 e 251/2017).

Invece, la disposizione regionale censurata non indicando un termine finale del rapporto lavorativo, avrebbe consentito un generalizzato ed implicito meccanismo di proroga dei rapporti precari in essere, determinando la prosecuzione del contratto tendenzialmente in via definitiva, senza l’indizione di una selezione pubblica.




La Corte dei Conti sul valore medio procapite del trattamento accessorio

La Corte dei Conti – Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha fornito il proprio parere ad alcuni quesiti presentati da un Comune, che si riportano integralmente. Il giudice contabile ha considerato ammissibili solo i questiti 2) e 3) che pur richiamando le modalità di calcolo del salario medio procapite si riferiscono evidentemente al valore medio procapite del trattamento economico accessorio.

Quesiti

“1) sulla costituzione del fondo prima del 31 dicembre e del suo aggiornamento tecnico successivo, come sopra descritto, al fine di poter concludere la sottoscrizione del CCDI economico 2020 in tempi ragionevoli, nonostante il virus COVID-19;

2) sulle concrete modalità di calcolo del salario medio procapite. Questo Comune ritiene che ci si dovrebbe riferire all’importo del Fondo al netto dei valori non soggetti al limite, quali ad esempio i piani di razionalizzazione, le funzioni tecniche, gli incentivi IMU/TARI, e, pertanto, riferirsi al totale depurato delle voci non soggette al vincolo art. 23, comma 2, D.lgs. n. 75/2017;

3) se è possibile considerare, ai fini del calcolo del salario medio, solo il Fondo Risorse Decentrate, con riferimento al solo personale dipendente senza le posizioni organizzative, nel caso in cui l’amministrazione abbia già deciso il non incremento del fondo delle P.O., in caso di aumento del numero dei dipendenti in servizio al 31/12/2020 rispetto a quelli al 31/12/2018. Da una simulazione fatta risulta peraltro un incremento inferiore e quindi più prudente. Nondimeno non è possibile ex Lege procedere ad un incremento del Fondo Lavoro Straordinario;

4) come si determina il numero dei dipendenti in servizio al 31/12/2018;

5) come si determina il numero dei dipendenti in servizio al 31/12/2020;

6) come si procede a quantificare l’aumento del fondo nel 2020 nel caso in cui, ad esempio, nel medesimo anno le assunzioni avverranno dal 01/10/2020? E a regime nel 2021?

7) con riferimento a quale norma del CCNL/2018 si aggiungono le risorse al Fondo?

8) come si procede se ad esempio al 31/12/2021 il numero dei dipendenti in servizio è inferiore a quello considerato al 31/12/2020 e per il quale è stato definito l’incremento del fondo 2020?”

 

Parere

Occorre richiamare in primo luogo la norma su cui verte il quesito del Comune, ossia l’art 33, comma 2, del D.L. 30 aprile 2019 n. 34, convertito nella legge 28 giugno 2019 n. 58, laddove dispone che: “Il limite al trattamento accessorio del personale di cui all’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 27 maggio 2017, n. 75 è adeguato, in aumento o in diminuzione, per garantire l’invarianza del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018”

Dal D.M. 17 marzo 2020 di attuazione delle disposizioni del d. l. 34/2019, si evince che resta comunque ferma l’irriducibilità per il trattamento accessorio del limite rappresentato dall’importo determinato per l’anno 2016, laddove nella Premessa dello stesso D.M. si legge “Rilevato che il limite al trattamento economico accessorio di cui all’art. 23, comma 2 del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, è adeguato, in aumento e in diminuzione ai sensi dell’art. 33, comma 1 del decreto-legge n. 34 del 2019, per garantire il valore medio pro capite riferito all’anno 2018, ed in  particolare è fatto salvo il limite iniziale qualora il personale in servizio è inferiore al numero rilevato al 31 dicembre 2018”.

Precisato il quadro normativo di riferimento, i quesiti di cui ai punti 2 e 3 sebbene formulati con riferimento a “modalità di calcolo del salario medio pro capite” si riferiscono evidentemente, stante il richiamo normativo nelle premesse dell’istanza, al valore medio procapite del trattamento economico accessorio.

Il legislatore, con il riportato art. 33, comma 2, al fine di superare la rigidità del vincolo sancito dall’art 23 comma 2 del decreto legislativo 75/2017, per la determinazione del trattamento accessorio del personale degli enti locali il cui tetto era costituito da quello definito nel 2016, ha inteso adeguare il suddetto istituto in maniera flessibile al valore medio pro-capite del fondo e consentire, così, una quantificazione dello stesso in ragione di una spesa che resterà invariata per quanto attiene al valore medio fissato al 31 dicembre 2018.

Per la determinazione del “ valore medio pro-capite” occorre considerare (sommare) sia il valore del fondo relativo alle risorse per la contrattazione decentrata sia le risorse destinate alla remunerazione delle P.O. L’interpretazione letterale dell’art 33 della D.L.34/2019 nella parte sopra riportata non consente una scissione tra le due componenti in quanto la disposizione in commento, dopo aver affermato la necessità di garantire “l’invarianza del valore medio pro-capite, riferito all’anno 2018, del fondo per la contrattazione integrativa “, aggiunge l’espressione “nonché delle risorse per remunerare gli incarichi di posizione organizzativa, prendendo a riferimento come base di calcolo il personale in servizio al 31 dicembre 2018” .

Tale interpretazione oltre ad essere supportata dal dato letterale, è suffragata dal richiamo della disposizione stessa all’art. 23, comma 2, del decreto legislativo 25 maggio 2017 n. 75, che stabilisce “a decorrere dal 1° gennaio 2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l’anno 2016.”, fissando un limite al “trattamento accessorio” globalmente inteso senza distinzione alcuna ai fini della determinazione del tetto massimo.

Per stabilire il valore medio pro capite previsto dall’art 33, comma 2, del D.L. 34/2019 in argomento, non vi sono, quindi, elementi che possano portare a una diversificazione dei fondi ai fini che qui interessano.

In senso conforme è la deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Liguria PAR 56/2019 “La differente modalità di copertura finanziaria non ha inciso, tuttavia, sul limite di finanza pubblica da osservare ai sensi dell’art. 23, comma 2 del D. Lgs. n. 75/2017. Infatti, l’art. 67, comma 7 del nuovo CCNL, sopra menzionato, ha confermato, in modo esplicito, che “la quantificazione del Fondo risorse decentrate e di quelle destinate agli incarichi di posizione organizzativa, di cui all’art. 15, comma 5, deve comunque avvenire, complessivamente, nel rispetto dell’art. 23, comma 2 del D. Lgs. n. 75/2017 (Cfr. anche Sezione regionale di controllo Basilicata n. 2/2019/PAR, Sezione controllo Lombardia, n. 200/2018/PAR).

D’altra parte anche sotto un profilo logico e pragmatico non sarebbe di nessuna utilità considerare in maniera distinta le risorse delle P.O. per determinare un valore medio delle stesse non solo per la diversificazione notevole dei valori che possono interessare le posizioni organizzative, ma soprattutto perché in caso di costituzione di nuove posizioni organizzative la norma non consentirebbe una variazione in aumento del suddetto valore medio.

In conclusione, per determinare il costo medio pro-capite occorre procedere sommando il valore del fondo per la contrattazione decentrata con il valore complessivo delle risorse destinate al finanziamento delle P.O. e dividere l’importo risultante per il numero di tutti i dipendenti in servizio al 31/12/2018, comprese le posizioni organizzative.

La quantificazione del fondo, ai fini della determinazione del valore medio poi, deve essere fatta con riferimento soltanto a quelle voci che concorrono a determinare il tetto del trattamento accessorio di cui all’art 23 del decreto legislativo 75/2017.

Il  Collegio non può dare riscontro ai quesiti di cui ai n 1) 4) 5 )6) 7 )8), che non richiedono l’interpretazione di norme di contabilità pubblica, ma attengono alla richiesta di individuazione di norme contrattuali o alla definizione di procedure amministrative di competenza dell’Ente ovvero risultano incomprensibili (quesito n.1) e pertanto sono inammissibili.




È danno erariale l’assenza di differenziazione nella valutazione dei dipendenti

(estratto da: La Gazzetta degli Enti Locali)

La sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia 27 agosto 2020, n. 132 evidenzia la produzione del danno erariale conseguente alla violazione dell’obbligo imposto dall’articolo 18, comma 2, del d.lgs. 150/2009 di differenziare la valutazione dei dipendenti.

Nel caso di specie, la sentenza entra in un quadro di condanne più ampio, che ha riguardato le valutazioni del 2011 presso la provincia di Pavia, ove il presidente aveva assegnato a tutti i dirigenti la medesima valutazione o ove, sulla base di un sistema organizzativo eufemisticamente qualificabile come bizzarro, i dirigenti di vertice hanno valutato i dirigenti in posizione organizzativa (sic) adeguandosi all’appiattimento valutativo del presidente.

La sostanza è questa: “L’illiceità dell’erogazione del trattamento stipendiale accessorio (in particolare dell’indennità di risultato dirigenziale) in assenza di una differenziazione basata sull’analisi dei risultati gestionali costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Corte dei conti (tra i tanti pronunciamenti, si vedano Corte dei conti, Sez. I App. n.241/2018; id. sez. III App. n.609/2016; id., Sez. Puglia, n.217/2019; id., III App., n.301/2015; id, Sez. Veneto, n.481/2009), con conseguente perfezionamento, nel caso di specie, di un’ipotesi di responsabilità erariale”.

Scrive inoltre la Corte: “Il fondamento dell’illecito consiste nell’aver sostanzialmente annientato la valutazione dei dirigenti ed aver disposto, in palese assenza di motivazione ed a fronte, per contro, della laboriosa istruttoria precedentemente espletata con riguardo alle attività svolte all’interno dei singoli settori (ancorchè rivelatasi carente ed insufficiente secondo i rappresentanti del Nucleo di Valutazione) un giudizio di attribuzione del massimo punteggio a tutti i dirigenti in posizione organizzativa”.
Si rappresenta in concreto una situazione estremamente frequente: gli enti adottano complicati sistemi di valutazione ed attribuzione dei punteggi, richiedenti appunto istruttorie laboriose, produzione di documenti, necessità di contraddittorio con i destinatari, schede, proposte, interventi dell’organo di governo. Un polverone (favorito dalle velleitarie disposizione normative) dietro il quale, poi, nascondere appunto l’annientamento della valutazione: attribuire a tutti la stessa valutazione significa non valutare.

Apporto del Nucleo di valutazione. La Procura contabile aveva poggiato l’illiceità della valutazione appiattita ed uguale per tutti anche sulla base dell’assenza della sottoscrizione delle schede da parte del Nucleo di valutazione.

La sentenza, tuttavia, non dà molto rilievo a questo aspetto. Afferma che la responsabilità amministrativa non sia dipesa dalla necessità o meno dell’intervento del Nucleo, bensì dalla valutazione rapportata al massimo per tutti in modo non differenziato.

Iniziativa del presidente della provincia. Del resto, l’idea di valutare tutti i dirigenti al massimo è del presidente della provincia di Pavia, che, pur tenendo conto dell’istruttoria valutativa, ha ritenuto comunque di procedere in tal modo, in relazione alla “particolare contingenza gestionale del 2011”.

Non risulta ancora chiaro, negli Enti locali, che sebbene il Nucleo di valutazione o l’Organismo indipendente di valutazione elabori una “proposta” di valutazione rivolta all’organo di governo, questo non ha la possibilità di annullare totalmente gli esiti di un’azione integralmente di carattere tecnico.

La proposta dei valutatori non è definita vincolante dalla norma, il che dà spazio per eventuali interlocuzioni tra organo di governo e valutatore, allo scopo di comprendere meglio gli esiti e poterli mettere anche in discussione. Ma, allo scopo, nel rispetto della dialettica tra proposta e provvedimento finale, tale ultimo potrebbe sconvolgere la proposta solo con una motivazione profonda, del medesimo valore e tenore tecnico.
È da escludere che l’organo di governo disponga di un potere apodittico di stravolgimento totale dell’operato dell’organo valutatore, come avvenuto nel caso di specie.

 Obbligo di differenziazione. La sentenza colpisce la violazione dell’obbligo imposto in maniera molto chiara dall’articolo 18, comma 2, del d.lgs 150/2009 (norma tra le più violate dell’ordinamento): “E’ vietata la distribuzione in maniera indifferenziata o sulla base di automatismi di incentivi e premi collegati alla performance in assenza delle verifiche e attestazioni sui sistemi di misurazione e valutazione adottati ai sensi del presente decreto”.

Nonostante ciò, molte amministrazioni violano questo espresso come questo, forse per la presunta assenza di sanzioni. Ma, al di là della circostanza che la sanzione c’è, come dimostra la sentenza, è sufficientemente chiaro che in ogni caso il principio di legalità dell’azione amministrativa vincola le scelte e non consente di violare le norme.

In ogni caso, c’è da chiedersi se la corretta applicazione delle previsioni contrattuali che obbligheranno anche per la dirigenza a differenziare la valutazione individuale con una quota non inferiore al 30% del valore medio pro-capite delle valutazioni escluderà, in futuro, la responsabilità per inadempimento alla prescrizione normativa.

Prescrizione. La sentenza ribadisce che la prescrizione di fatti dannosi per l’erario non decorre dal loro compimento, bensì dalla conoscibilità effettiva ed utile per porvi rimedio.

Nel caso di specie, l’illecita distribuzione dei premi è stata disvelata solo a seguito dell’ispezione ministeriale; quindi la prescrizione decorre dagli esiti di questa, anche se svolta anni dopo l’adozione dei provvedimenti dannosi.

Dirigenti p.o. La provincia di Pavia si era organizzata distinguendo dirigenti di vertice e dirigenti in posizione organizzativa, di fatto configurata come fossero posizioni organizzative del comparto, ma retribuiti con stipendio da dirigenti.

Un paradosso insensato, tanto più che il sistema di valutazione della provincia di Pavia prevedeva che il sistema di valutazione dei dirigenti p.o. fosse omologato appunto a quello dei funzionari in posizione organizzativa. Si tratta di una violazione clamorosa dei contratti collettivi e delle disposizioni normative connesse alle prerogative dirigenziali.

La Corte non si esprime esplicitamente su questo sistema fortemente viziato di configurare la dirigenza, ma scrive: “avuto riguardo al quadro normativo di riferimento, deve riconoscersi che l’assetto ordinamentale non risultava obiettivamente chiaro in ordine alla possibilità che i dirigenti non apicali degli enti locali potessero essere valutati direttamente dal dirigente di vertice alla stregua dei funzionari in p.o. e senza l’intervento di un organo terzo di controllo. Da un lato effettivamente la disciplina dell’Organismo Indipendente di Valutazione della performance di cui all’art.14 D.Lgs. n.150/2009, prevedeva e prevede che la valutazione di tale organo sia limitata ai dirigenti di vertice, dall’altro lato, tale disciplina non trovava invero applicazione diretta presso la Provincia di Pavia, la quale continuava a regolare le attività di controllo tramite i Nuclei di Valutazione previsti dalle previgenti norme sopra richiamate. Le disposizioni regolamentari interne non prevedevano differenziazioni di regime tra 32 i dirigenti apicali ovvero in posizione organizzativa e l’indennità di risultato era disciplinata nel medesimo contesto procedimentale. Tuttavia la Provincia di Pavia, con la Deliberazione della Giunta n.74/2010, aveva previsto una assimilazione della valutazione dei dirigenti in p.o. a quella dei funzionari in p.o., prevedendo che questi ultimi venissero valutati dal dirigente sovraordinato”.

 Responsabilità della dirigente condannata. Questo assetto ordinamentale oggettivamente assurdo e viziato è, tra l’altro, all’origine della condanna pronunciata contro la dirigente che ha valutato un altro dirigente in p.o., sempre riconoscendo il massimo e senza alcuna specifica indagine valutativa, alla stregua di quanto deciso dal presidente della provincia per gli altri dirigenti.

La Corte tiene a precisare che si tratta di una responsabilità integralmente ascrivibile alla sola dirigente, molto chiaramente indotta alla piaggeria da una cattiva interpretazione del ruolo e delle funzioni della dirigenza e, in particolare, della sua autonomia tecnica.

Inoltre, nega, come del resto da sempre ritiene la magistratura contabile, che una presunta “copertura politica” possa esimere da responsabilità i dirigenti che, rinunciando alle prerogative d’ufficio, pensano di basare la loro gestione non sulle regole tecniche o sulle norme, bensì su mal concepite ed interpretate “linee politiche”.

Mancata consulenza giuridica del segretario. La sentenza evidenzia che il segretario comunale è mancato al dovere di supportare con la propria funzione di consulenza giuridico amministrativa l’attività valutativa.
Questo, tuttavia, non rileva al fine di escludere la responsabilità della dirigente condannata, ma solo a ridurre del 10% il valore della somma da risarcire.

Programmazione della gestione. Il potere riduttivo è stato esercitato riducendo del 50% la determinazione del danno (corrispondente ovviamente al premio corrisposto) in ragione della circostanza che l’avvenuta programmazione delle attività consentiva anche a posteriori un minimo di valutazione dell’operato della dirigenza.
Infatti, evidenziano i giudici, “può essere ritenuto equo limitare il danno erariale concretamente subito dall’ente ad una quota pari al 50% delle somme premiali erogate, in linea con la previsione delle Linee Guida interne (pag.5 di 6) secondo la quale il trattamento premiale per i risultati di gestione si sarebbe potuto ammettere a condizione che fosse stato superato il 50% degli obiettivi assegnati (circostanza questa ragionevolmente verificatasi in concreto, anche alla luce dell’intervenuta presa d’atto della Giunta Provinciale dei risultati raggiunti dai dirigenti)”.