Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori


ANALISI GIURIDICA DELL’ISTITUTO

Nel nostro ordinamento sono presenti alcuni limiti per il datore di lavoro relativamente all’attività di vigilanza e controllo che può esercitare sui propri dipendenti. Esistono, infatti, il diritto alla riservatezza, la dignità personale, la libertà di pensiero, di espressione e di comunicazione.
Sul luogo di lavoro tali diritti sono tutelati dal Legislatore con la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), in particolare con gli articoli 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo), 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) e 15 (Atti discriminatori).
Tale disciplina è stata riformatadal c.d. “Jobs Act”, che ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Prima della riforma (entrata in vigore il 24 settembre 2015), vigeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Tale divieto veniva meno solo nei casi in cui il datore di lavoro, per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, intendesse installare nuove apparecchiature dalle quali potesse derivare un controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti: in tal caso, era necessario il previo accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza, l’autorizzazione delle articolazioni locali del Ministero del Lavoro territorialmente competenti.

Il nuovo testo della norma pone in evidenza due aspetti:
1) da un lato, l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (quali impianti di videosorveglianza);
2) dall’altro, l’utilizzo di altri strumenti che il datore di lavoro assegna ai propri dipendenti per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, pc, telefoni, tablet), nonché gli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze.

1) I primi (impianti audiovisivi e strumenti di controllo a distanza) continuano, come in passato, a poter essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. Affinché la loro installazione ed il loro utilizzo sia considerato legittimo, è necessario che vi sia un accordo sindacale sulle modalità di utilizzo di tali apparecchiature (accordo stipulato, a seconda delle dimensioni dell’impresa, con le RSA o le RSU o con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale). Se tale accordo manca, il datore di lavoro deve ottenere la previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro (si rivolgerà all’uno o all’altro a seconda delle dimensioni dell’azienda).

2) La seconda parte della norma, invece, legittima l’esercizio di un controllo a distanza (c.d. diretto) effettuato sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per eseguire le proprie mansioni e sugli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (c.d. lettori badge). In questo caso, infatti, non c’è l’obbligo per il datore di lavoro di raggiungere una intesa sindacale o di ottenere l’autorizzazione ministeriale: il controllo è libero e può essere effettuato anche senza un’esigenza organizzativa o produttiva. In assenza di qualsiasi funzione di “filtro” attribuita alle organizzazioni sindacali o alla vigilanza del Ministero del Lavoro per mezzo della Direzione Territoriale del Lavoro, è il singolo lavoratore che dovrà verificare se il controllo è esercitato dall’imprenditore in modo legittimo ed eventualmente recarsi presso un sindacato o un legale per tutelare i propri diritti.

Oltre alla normativa giuslavoristica, il Datore di lavoro dovrà rispettare anche tutto l’impianto normativo relativo alla protezione dei dati personali, costituito dal Regolamento Europeo 2016/679, dal Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) e dai provvedimenti emessi nel corso degli anni dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Per non incorrere in sanzioni penali e civili il Datore di Lavoro dovrà mettere in atto delle corrette procedure interne per la gestione di tali dati, in primo luogo dovrà rispettare il dettato normativo dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che prevede, al comma III, la possibilità di raccogliere le informazioni mediante gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e di poterne disporre per tutti i fini connessi al relativo rapporto, purché sia stata fornita adeguata informazione al lavoratore sulle modalità d’uso dei dispositivi stessi e sui possibili controlli, il tutto nel rispetto dei principi sanciti dalla normativa vigente in tema di privacy.

Il datore di lavoro dovrà pertanto essere in grado di dimostrare come l’utilizzo delle tecnologie informatiche non rientri in un programma volto esclusivamente al controllo dell’attività del lavoratore. È bene ricordare che il controllo a distanza non sussiste solamente in presenza di impianti di videosorveglianza, ma anche in presenza di attività quali “la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate”, come ribadito anche da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 28.05.2018 n.13266).
L’uso degli strumenti di controllo dev’essere sempre contenuto nella portata e proporzionato.

Affinché il controllo a distanza possa ritenersi legittimo e i dati così acquisiti siano utilizzabili, è fondamentale fornire ai dipendenti un’informativa esaustiva in ordine all’uso degli strumenti aziendali, ai dati trattati, al loro utilizzo e conservazione, nonché circa le modalità con cui vengono eseguiti i controlli, che i controlli non abbiano ad oggetto l’attività lavorativa del dipendente e che siano effettuati ex post, a seguito del verificarsi di un comportamento illecito del lavoratore o comunque per la verifica di un’anomalia del sistema informatico. Non è infatti consentito un accesso indiscriminato al datore di lavoro agli strumenti informatici in uso al lavoratore.

I lavoratori devono essere sempre previamente informati del possibile controllo datoriale sulle loro comunicazioni anche via internet; per questo motivo diventa fondamentale adottare una privacy policy adeguata e calata nello specifico contesto e sarà perciò compito del datore di lavoro fornire al lavoratore una adeguata informativa relativa il trattamento dei dati personale (ex art. 13 Regolamento Europeo 2016/679).
Qualora il Datore di Lavoro contravvenga alle prescrizioni previste dal GDPR o dallo Statuto dei Lavoratori, potrà incorrere in sanzioni di carattere amministrativo e penale.

Trattamento dei dati biometrici: che cosa prevede il GDPR

A disciplinare il trattamento dei dati biometrici per applicazioni di controllo accessi e rilevazione presenze sono il GDPR – General Data Protection Regulation e il successivo decreto italiano di adeguamento (D.lgs. 101/2018).

L’art. 9, par. 1, del GDPR vieta – in linea generale – il trattamento dei dati biometrici, fatte salve alcune eccezioni. La prima eccezione prevede che l’interessato abbia autorizzato il trattamento.

Seguono, poi, altre eccezioni, che consentono l’utilizzo dei dati biometrici solo se necessario in ambito lavorativo o nell’ambito della sicurezza sociale e collettiva; se necessario per la protezione di un interesse vitale dell’interessato o di altra persona; se necessario in un procedimento giudiziario; se vengono rilevati particolari motivi di interesse pubblico o per motivi di sicurezza sanitaria, controllo e prevenzione di malattie trasmissibili e per la tutela di gravi minacce per la salute delle persone fisiche.

La seconda eccezione, in particolare, giustifica la presenza di sistemi basati su riconoscimento dei dati biometrici in ambito lavorativo per l’accesso ad “aree critiche”: pensiamo, ad esempio, a quelle zone, all’interno di una grande industria, in cui sono presenti macchinari dall’utilizzo pericoloso per i non addetti ai lavori oppure ai laboratori speciali all’interno degli ospedali, alle torri di controllo e alle aree speciali degli aeroporti o ai caveau delle banche.

Si tratta, in tutti i casi, di zone critiche, il cui ingresso deve essere protetto da un controllo accessi severo e altamente affidabile come quello di tipo biometrico. Che cosa accade, quindi, nel caso in cui si decida di adottare la tecnologia biometrica negli Uffici della Pubblica Amministrazione?

Videosorveglianza e biometria nella Pubblica Amministrazione: il NO del Garante Privacy 

La Legge Concretezza (19 giugno 2019, n. 56) in tema di “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo”, aveva previsto, oltre a misure volte a migliorare le capacità e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, diversi interventi per la prevenzione dell’assenteismo: impronte digitali a sostituzione del badge e, in più, l’installazione di telecamere di videosorveglianza a varchi di acceso. Più nel dettaglio, la Legge prevede che l’identificazione del dipendente avvenga tramite il riconoscimento delle impronte digitali, controlli dell’iride o riconoscimento vocale, sia in entrata che in uscita.

Chiamato a esprimere il proprio parere sullo schema di decreto riguardante, nello specifico, la prevenzione dell’assenteismo, il Garante della Privacy ha dichiarato che l’accoppiata rilevazioni biometriche- sistemi di videosorveglianza è “di dubbia compatibilità con le regole della Privacy europea e nazionale”.  

Relativamente all’adozione di telecamere di videosorveglianza per il controllo dei varchi, manca la proporzionalità tra tale misura e le esigenze organizzativo-produttive, di sicurezza sul lavoro e di tutela del patrimonio aziendale previste dal Provvedimento del Garante della Privacy del 2010, dallo Statuto dei Lavoratori, nonché dalla circolare n. 5/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Riguardo, invece, all’utilizzo di sistemi biometrici, mancano i presupposti indicati dal GDPR, ovvero fattori di rischio specifici, la presenza – e il ripetersi – di situazioni critiche, che potrebbero arrecare danno alle persone, all’ambiente e al patrimonio.

Insomma, secondo l’Autorità Garante, la motivazione “prevenzione dell’assenteismo” non regge, non giustifica la scelte di telecamere e di sistemi biometrici nella Pubblica Amministrazione. Tale scelta sembra, invece, andare verso il “controllo” del lavoro e dei comportamenti dei lavoratori, tassativamente vietato dalla normativa italiana e internazionale in tema di Privacy.

 




Sentenze recenti sulle mansioni superiori nel pubblico impiego

La sintesi delle massime di alcune sentenze emanate da diversi organi giudicanti in materia di mansioni superiori

  1. Pubblico impiego: presupposti per l’esercizio di mansioni superiori

T.A.R. Napoli, (Campania) sez. V, 03/01/2019, n.32

Nel pubblico impiego, ai fini del possibile esercizio di mansioni superiori costituisce presupposto indefettibile l’esistenza di un posto vacante in pianta organica, al quale corrispondano le mansioni effettivamente svolte e, inoltre, la sussistenza di atto formale di incarico o investimento di dette funzioni proveniente dall’organo amministrativo a ciò preposto.

2.  Svolgimento di mansioni superiori: differenze retributive e condizioni

Consiglio di Stato sez. III, 23/05/2019, n.3372

Nell’ambito del pubblico impiego il legislatore ha individuato specifiche e definite condizioni alle quali ha inteso subordinare il riconoscimento del diritto alle differenze retributive in ragione delle mansioni espletate; in particolare, per il personale amministrativo del comparto sanità l’art. 29 comma 2, d. P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, ha consentito una variazione stipendiale in ragione dello svolgimento di mansioni superiori per più di 60 giorni, esclusivamente al ricorrere di tre condizioni, giuridiche e di fatto, operanti in modo concomitante:

a) le mansioni devono essere svolte su un posto di ruolo, esistente nella pianta organica, e di fatto vacante;

b) su tale posto non deve essere stato bandito alcun concorso;

c) l’organo gestorio deve aver attribuito la supplenza con una formale deliberazione, proveniente ex ante dall’organo competente (per le A.S.L., prima il Comitato di gestione, quindi l’Amministratore straordinario), dopo aver verificato i presupposti indicati in precedenza, assumendosene tutte le responsabilità, anche in ordine ai profili di copertura finanziaria con numerosi richiami giurisprudenziali ulteriori; al contrario non assumono rilevanza i meri ordini di servizio o lo svolgimento di mansioni fondato su una mera scelta organizzativa dell’amministrazione che intenda utilizzare i dipendenti per compiti diversi da quelli propri della qualifica rivestita.

3.  Svolgimento di fatto di mansioni superiori: condizioni per il diritto al compenso

Cassazione civile sez. VI, 24/01/2019, n.2102

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nell’art. 52, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, né all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost.

4.  Accertamento dello svolgimento di mansioni superiori

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2019, n.18901

Nel pubblico impiego contrattualizzato, il giudicato di accertamento dello svolgimento di mansioni superiori non comporta l’acquisizione della miglior qualifica, ma solo la condanna al pagamento delle differenze retributive, sicchè esso ha efficacia vincolante anche per i periodi successivi solo se il lavoratore, immutata la disciplina collettiva, alleghi e provi il reiterarsi delle mansioni superiori anche in detto arco temporale.

5.  Svolgimento di mansioni superiori: dà sempre diritto alla superiore retribuzione?

Consiglio di Stato sez. V, 27/03/2018, n.1913

Nel pubblico impiego è la qualifica – e non le mansioni – il parametro cui la retribuzione è inderogabilmente riferita, considerato anche l’assetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, collegato anch’esso, secondo il paradigma dell’art. 97 Cost, ad esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica: conseguenza è che l’Amministrazione pubblica è tenuta ad erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori solo se una norma speciale consenta tali assegnazioni e la maggiorazione retributiva.

6.  Verifica dei requisiti di ammissione per la progressione verticale

Tribunale Castrovillari sez. lav., 14/01/2019, n.38

In tema di pubblico impiego, nel reclutamento concorsuale di personale interno, ai fini della verifica dei requisiti di ammissione per la progressione verticale, vengano considerate le sole mansioni (di rilievo nel bando) che il candidato ha svolto all’interno ed in conformità della sua qualifica di appartenenza, senza poter aliunde valorizzare mansioni svolte di fatto per profili diversi da quelli retributivi, all’interno peraltro di un esplicito disfavore normativo verso tale istituto; inoltre, ove mai disposizioni contrattuali si riferiscano a mansioni superiori “certificate”, esse parimenti non ricomprendono le mere mansioni superiori di fatto, ma richiedono un quid pluris, atteso che laddove si richiede una certificazione relativa ad un rapporto di impiego pubblico contrattualizzato con una pubblica amministrazione, detta certificazione non può che riguardare lo stato di diritto e non già quello di fatto del rapporto o di suoi specifici aspetti.

7.  Aziende sanitarie: possono istituire posizioni dirigenziali?

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2018, n.30811

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, le aziende sanitarie possono istituire posizioni dirigenziali che, senza attribuzione di responsabilità della struttura, semplice o complessa, comportano l’assegnazione di incarichi di tipo esclusivamente professionale, caratterizzati dall’affidamento di compiti con precisi ambiti di autonomia tecnico-professionale, da esercitare nel rispetto degli indirizzi dati dal dirigente responsabile della struttura, nonché dalla collaborazione con quest’ultimo e dall’assunzione di corresponsabilità quanto alla gestione dell’attività professionale.

Pertanto, l’assegnazione di fatto del funzionario non dirigente ad una posizione dirigenziale, prevista dall’atto aziendale e dal provvedimento di graduazione delle funzioni, costituisce espletamento di mansioni superiori, rilevante ai fini e per gli effetti previsti dall’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, la cui applicazione non è impedita dal mancato espletamento della procedura concorsuale, dall’assenza di un atto formale e dalla mancanza della previa fissazione degli obiettivi, che assume rilievo, eventualmente, per escludere il diritto a percepire anche la retribuzione di risultato.

8.  Sostituzione nell’incarico di dirigente medico del Ssn

Corte appello Reggio Calabria sez. lav., 01/02/2019, n.22

In materia di pubblico impiego contrattualizzato, la sostituzione nell’incarico di dirigente medico del S.S.N., ai sensi dell’art. 18 del c.c.n.l. dirigenza medica e veterinaria dell’8 giugno 2000, non si configura come svolgimento di mansioni superiori poiché avviene nell’ambito del ruolo e livello unico della dirigenza sanitaria, sicché non trova applicazione l’art. 2103 c.c. e al sostituto non spetta il trattamento accessorio del sostituito, ma solo la prevista indennità cd. Sostitutiva.

9.  Aumento stipendiale per lo svolgimento di mansioni superiori

Consiglio di Stato sez. III, 26/11/2018, n.6662

In tema di pubblico impiego, ai sensi dell’art. 29, co. 2, del D.P.R. n. 761/1979, è consentita una variazione stipendiale, nell’ipotesi di svolgimento di mansioni superiori per più di sessanta giorni, soltanto in presenza di un posto vacante e, inoltre, purchè sia stato preventivamente adottato dall’organo competente un atto formale di incarico, valido ed efficace, non essendo invece necessario che per tale posto venga bandito uno specifico concorso.

10.  Retribuzione degli impiegati pubblici

T.A.R. Venezia, (Veneto) sez. II, 09/05/2018, n.494

Nell’ambito del pubblico impiego, il parametro cui riferire la retribuzione è la qualifica, e non la mansione, pertanto la Pubblica Amministrazione ha l’obbligo di erogare la retribuzione corrispondente alle mansioni superiori soltanto nel caso in cui una norma speciale consenta tali assegnazioni e la maggiorazione retributiva.




Vademecum sul sistema pensionistico

Una guida utile per orientarsi nei meandri del sistema pensionistico italiano,  alla luce delle novità introdotte nel 2020.

Vademecum sul sistema pensionistico




Tutela dei lavoratori affetti da Coronavirus

Tutela infortunistica nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro. Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19” – Articolo 42 comma 2, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27. Chiarimenti.

[…] L’Istituto con la circolare 3 aprile 2020, n. 13 ha dato le indicazioni operative, anche in relazione alla prima fase della situazione emergenziale legata alla diffusione pandemica da nuovo Coronavirus (SARS-Cov-2) per la tutela dei lavoratori che hanno contratto l’infezione in occasione di lavoro a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui all’art. 42, comma 2, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito, con modificazione, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27.

Con la presente circolare, acquisito il parere favorevole del Ministro del lavoro e delle politiche sociali con nota del 20 maggio 2020, prot. 5239, si forniscono delle ulteriori istruzioni operative nonché dei chiarimenti su alcune problematiche sollevate in relazione alla tutela infortunistica degli eventi di contagio. […]

circolare n 22 del 20 maggio 2020




Giurisprudenza (Aggiornamento – 2)

Stabilizzazione e calcolo dei tre anni

Il Tar Campania, con la sentenza n. 2893/2020, ha affrontato il tema della computabilità del periodo di astensione obbligatoria nel calcolo della durata dei contratti di lavoro flessibile, necessaria per il conseguimento del requisito dei tre anni previsto dall’articolo 20, comma 2, del Dlgs 75/2017 ai fini della stabilizzazione.

Il Tribunale ha ricordato che in applicazione dell’articolo 22 del testo unico sulla tutela della maternità e paternità, in base al quale i periodi di congedo di maternità devono essere computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, applicabile anche alle lavoratrici madri che hanno stipulato con le pubbliche amministrazioni un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, il periodo di astensione obbligatoria deve essere integralmente computato anche ai fini del calcolo della durata dei contratti di lavoro flessibile necessaria per il conseguimento del requisito per la stabilizzazione, previsto dall’articolo 20, comma 2, del Dlgs 75/2017.

Del resto, ha rilevato il Tar campano che detta norma deve essere applicata anche alle lavoratrici madri che hanno stipulato con le pubbliche amministrazioni un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ai sensi dell’articolo 1, comma 791, della legge 296/2006, che ha previsto l’emanazione di un decreto del ministro del Lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il ministro dell’economia e delle finanze, per disciplinare l’applicazione delle disposizioni previste dagli articoli 17 e 22 del Dlgs 151/2001, a tutela e sostegno della maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata sopra indicata, nei limiti delle risorse rivenienti dallo specifico gettito contributivo da determinare con il medesimo decreto.

 

I requisiti per selezionare le categorie protette

«Non costituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso riservato alle categorie previste dall’articolo 8 della legge 68/1999, del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia Ue, il disabile disoccupato rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati».

È questo il principio affermato dalla Corte di cassazione sezione lavoro, con la sentenza n. 14790/2020, con la quale ha giudicato la legittimità del provvedimento di esclusione dall’assunzione di un vincitore di un concorso pubblico per titoli ed esami, indetto ai sensi della legge 68/1999.

In particolare, un soggetto, risultato vincitore di un concorso riservato alle categorie previste dall’articolo 8 della legge 68/1999 (il cui bando prevedeva il permanere del requisito della disoccupazione in capo al portatore di disabilità sia al momento della domanda sia all’atto dell’assunzione), era stato escluso dall’assunzione per carenza del requisito della disoccupazione al momento dell’assunzione.

 

La retribuzione per le mansioni superiori «di fatto»

La Corte di cassazione sezione lavoro, con ordinanza n. 14805/2020, ha accolto il ricorso di un lavoratore (assunto in categoria A) volto al pagamento delle differenze di retribuzione maturate in ragione dell’esercizio di mansioni superiori, riferibili alla categoria B.

In particolare, confermando la debenza delle somme a favore del dipendente, la Corte ha rilevato che nel caso di svolgimento di mansioni superiori di fatto, non è rilevante, ai fini della corresponsione delle differenze retributive, l’accertamento in merito all’esistenza di un atto scritto di conferimento di dette mansioni. Infatti, «lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica, anche non immediatamente superiore a quella di inquadramento formale, comporta in ogni caso, in forza del disposto del Dlgs 165/2001, articolo 52, comma 5, il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore e questo diritto non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi nè all’operativa del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva».

 

Termini del procedimento disciplinare

«In tema di pubblico impiego contrattualizzato, ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (articolo 55-bis, comma 4, del Dlgs 165/2001) assume rilievo esclusivamente il momento in cui questa acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio del procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione».

Sono le conclusioni della Corte di Cassazione sezione lavoro, contenute nella sentenza n. 14810/2020, con cui è stato respinto il ricorso di un lavoratore, al quale il Comune di appartenenza aveva irrogato la sanzione del licenziamento disciplinare.

In particolare, tra le doglianze opposte dal soggetto, vi era la contestazione circa la legittimità del provvedimento per mancato rispetto dei termini procedimentali previsti per la conclusione del procedimento disciplinare.