Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Fonte: ItaliaOggi

Più fondi e più tempo per ripianare i disavanzi extra creati nei conti comunali dalla sentenza della Consulta (n.80/2021) sul Fondo anticipazioni di liquidità. La dote di 500 milioni, prevista dal testo originario del decreto legge Sostegni bis (dl 73/2021), sale a 660 milioni. E si riconosce agli enti la possibilità di ripianare dal 2021 l’eventuale maggiore disavanzo, registrato al 31 dicembre 2019 e derivante dalla pronuncia della Corte, in quote costanti entro il termine massimo di 10 anni al netto delle anticipazioni rimborsate nel 2020. Questo il punto di caduta su un tema caldo che da fine aprile agita il mondo delle autonomie, impattando sui bilanci di almeno 900 comuni, di cui 456 a rischio concreto di default. La soluzione, che dovrebbe essere messa al voto oggi in commissione bilancio della Camera e potrebbe essere ulteriormente modificata con ritocchi dell’ultim’ora, è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti ANCI al decreto legge Sostegni bis. Emendamenti in cui l’Associazione dei Comuni, oltre a chiedere più risorse (1 miliardo in totale per il 2021) rispetto a quelle che l’esecutivo sembrerebbe voler riconoscere agli enti, puntava anche a modificare il limite attualmente previsto che circoscrive la possibilità di fruire dei fondi ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti.

L’ANCI aveva giudicato «del tutto arbitrario» tale paletto e aveva chiesto che venisse rimosso. Per il momento nel testo dell’emendamento che dovrebbe andare al voto in commissione non c’è traccia di questo dietrofront anche se non è escluso che su questo tema le richieste dei sindaci possano essere accolte. L’emendamento detta anche le istruzioni su come contabilizzare il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità a decorrere dall’esercizio 2021. Gli enti, spiega la norma, iscriveranno nel bilancio di previsione il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità «nel titolo 4 della missione 20 – programma 03 della spesa, riguardante il rimborso dei prestiti». A decorrere dal medesimo anno 2021, in sede di rendiconto, gli Enti locali ridurranno, «per un importo pari alla quota annuale rimborsata con risorse di parte corrente, il fondo anticipazione di liquidità accantonato». La quota del risultato di amministrazione liberata seguito della riduzione del fondo anticipazione di liquidità sarà iscritta in entrata del bilancio dell’esercizio successivo come «Utilizzo del fondo anticipazione di liquidità», in deroga ai limiti previsti dall’articolo 1, commi 897 e 898, dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2018 n. 145. Nella nota integrativa allegata al bilancio di previsione nella relazione sulla gestione allegata al rendiconto dovrà essere data evidenza della copertura delle spese riguardanti le rate di ammortamento delle anticipazioni di liquidità, che, precisa la disposizione, «non possono essere finanziate dall’utilizzo del fondo anticipazioni di liquidità». «In accordo con tutti i capigruppo della commissione bilancio, siamo al lavoro per inserire nel decreto Sostegni bis una norma in grado di valutare con maggior ponderazione gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale che interviene su un’area di comuni e, più marginalmente, di province e Città metropolitane, caratterizzati da maggior fragilità e rigidità degli equilibri di bilancio, sui quali deve essere definita una nuova politica di sostegno al risanamento finanziario, attraverso una più ampia riforma della disciplina delle crisi finanziarie», ha spiegato Roberto Pella, capogruppo di Forza Italia in quinta commissione e primo firmatario dell’emendamento. «Con questa proposta, anche in considerazione degli effetti dell’emergenza epidemiologica tuttora in corso, si permette il recupero dei disavanzi di amministrazione degli enti locali mediante l’allungamento dei rispettivi periodi di ammortamento. Grazie a questa norma per la quale è doveroso ringraziare anche il viceministro all’economia Laura Castelli, i Comuni potranno scongiurare il default e continuare ad assicurare ai cittadini l’erogazione di servizi che non avrebbero più potuto garantire se non si fosse intervenuti concedendo loro più tempo per risanare i debiti pregressi». L’intesa è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti Anci al decreto legge Sostegni bis. Resta ancora aperto il nodo del tetto che circoscrive la possibilità di fruire delle risorse ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti. Un tetto che l’ANCI aveva subito definito «del tutto arbitrario». Pella (FI): i comuni potranno continuare a garantire i servizi ai cittadini




Riflessioni sulla “nuova” mobilità

Fonte – Italia Oggi

La nuova mobilità senza nulla osta richiede 3 anni di permanenza presso l’ente dal quale il dipendente pubblico intende trasferirsi. L’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, nel sopprimere (con l’eccezione dei comparti sanità ed istruzione, pari a circa la metà del complesso dei dipendenti pubblici) il «previo assenso» alla mobilità (noto anche come nulla osta), prevede tre possibili (e non molto chiaramente definite) eccezioni. Tra esse, la circostanza che si tratti di «personale assunto da meno di tre anni». Detta previsione pone almeno due ordini di problemi: il coordinamento con le disposizioni circa l’obbligo di permanenza in servizio a seguito della prima assunzione e se per personale «assunto» possa intendersi quello che sia provenuto per mobilità. Obblighi di permanenza L’articolo 35, comma 5-bis, del d.lgs. 165/2001 dispone che «i vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni.  La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».

Per gli Enti locali, la norma è replicata dall’articolo 3, comma 5-septies del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014: «i vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi». E’ evidente che la previsione del d.l. 80/2021, che ritiene da applicare il nulla osta al personale assunto da meno di tre anni non sia perfettamente coordinata con le norme viste prima, ai sensi delle quali vi è un obbligo di permanenza nella sede di cinque anni. Si potrebbe sostenere che le norme non siano in contrasto tra loro. Infatti quelle sull’obbligo di permanenza sono riferite espressamente ai «vincitori dei concorsi»; sicchè si potrebbe concludere che i vincitori dei concorsi proprio non possono chiedere la mobilità prima dei cinque anni. Tutti gli altri dipendenti, invece, dovrebbero dimostrare di aver lavorato per almeno tre anni presso l’ente dal quale intendono trasferirsi. Tuttavia, pare possibile leggere la previsione del d.l. 80/2021 in termini più ampi e, cioè, come norma oggettivamente incompatibile con quelle precedenti e, come tale, essendo intervenuta su una medesima materia, capace di abrogare implicitamente tali norme precedenti.

Esigenze di di sistematicità e coerenza interpretativa lasciano preferire la seconda tesi e propendere, quindi, per l’abrogazione tacita del vincolo di permanenza nella prima sede successiva ai concorsi per cinque anni e per l’introduzione di un termine minimo di tre anni generalizzato, ai fini della mobilità. Cosa si intende per personale assunto Come si è visto, la normativa precedente riferisce l’obbligo di permanenza per cinque anni ai «vincitori di concorsi». Si è, quindi, sempre inteso che laddove un dipendente fosse stato assunto da un ente a seguito di mobilità in entrata, non fosse tenuto al vincolo di permanenza quinquennale. Il d.l. 80/2021, tuttavia, rimette il triennio minimo di lavoro presso un ente come requisito soggettivo perché non sia richiesto il nulla osta alla pura e semplice «assunzione»: locuzione che sintetizza la sottoscrizione tra un datore ed un lavoratore di un contratto di lavoro subordinato. Da questo punto di vista ogni attivazione di un rapporto di lavoro, qualunque sia lo strumento di reclutamento, concorso, corso-concorso, stabilizzazione o la stessa mobilità in entrata, è un’assunzione. Né deve trarre in inganno la circostanza che la mobilità tra enti soggetti a limitazioni al turnover sia neutrale sul piano finanziario e quindi non sia considerata «assunzione» sul piano giuscontabile: si tratta di una finzione giuridica, che non cancella il fenomeno dell’assunzione. Dunque, i tre anni minimi necessari a scongiurare il nulla osta valgono per tutti i dipendenti «assunti», a prescindere dal modo col quale siano stati assunti. Il triennio di permanenza minima è coerente con la durata triennale della programmazione dei fabbisogni lavorativi e fornisce alle amministrazioni un orizzonte minimo di durata della prestazione lavorativa e della programmazione operativa dei propri dipendenti.




Decreto Reclutamenti: i caratteri del Piano integrato di attività e organizzazione

Ai sensi dell’articolo 6 del Decreto Reclutamenti (d.l. n. 80/2021), le PA con più di cinquanta dipendenti dovranno adottare il Piano integrato di attività e organizzazione entro il 31 dicembre. Tale documento individua gli obiettivi della performance da raggiungere nonché le modalità attuative del processo di potenziamento del personale.
Il piano dura tre anni e dev’essere aggiornato annualmente; al suo interno, oltre al lato gestionale e organizzativo dell’ufficio, dev’essere presente il percorso di digitalizzazione e semplificazione amministrativa nonché la prevenzione anticorruzione. Una volta entrato in vigore il provvedimento in discorso, gli altri adempimenti in precedenza vigenti saranno aboliti entro 60 giorni. Successivamente, entro il 31 luglio, le giunte di Comuni e Province dovranno presentare ai consigli il Dup per il triennio 2022/2024. Subentra in questa fase la divisione tra sezione strategica, che sviluppa le linee programmatiche di mandato, e la sezione operativa, recante i principali atti programmatori dell’ente. Scopo del Dup è integrare gli strumenti di programmazione dell’ente, tra i quali il programma triennale di fabbisogno di personale. Qualora l’ente non riesca a sostituire i vecchi strumenti di programmazione entro il 31 luglio sarà costretto a ad adoperare la normativa precedente, dovendo comunque presentare il nuovo piano interato in consiglio entro il 15 novembre 2021. Ad ogni modo, dalla mancata adozione colpevole discende l’applicazione delle sanzioni ex articolo 10 del d.lgs 150/2009: nessuna retribuzione di risultati per i dirigenti che per inerzia o omissione non hanno adempiuto ai propri compiti, né tantomeno l’Amministrazione potrà assumere personale o conferire incarichi di consulenza o collaborazione.

Decreto Legge 9/6/2021 n. 80 (G.U. 9/6/2021 n. 136)

Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia

Articolo 6

Titolo I – RAFFORZAMENTO DELLA CAPACITÀ AMMINISTRATIVA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Capo I- Modalità speciali per il reclutamento per l’attuazione del PNRR e per il rafforzamento della capacità funzionale della pubblica amministrazione

Piano integrato di attivita’ e organizzazione

1. Per assicurare la qualita’ e la trasparenza dell’attivita’ amministrativa e migliorare la qualita’ dei servizi ai cittadini e alle imprese e procedere alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi anche in materia di diritto di accesso, le pubbliche amministrazioni, con esclusione delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, con piu’ di cinquanta dipendenti, entro il 31 dicembre 2021 adottano il Piano integrato di attivita’ e organizzazione, di seguito denominato Piano, nel rispetto delle vigenti discipline di settore e, in particolare, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 e della legge 6 novembre 2012, n. 190.

2. Il Piano ha durata triennale, viene aggiornato annualmente e definisce: a) gli obiettivi programmatici e strategici della performance secondo i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 10, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150; b) la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, anche mediante il ricorso al lavoro agile, e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali, finalizzati al raggiungimento della completa alfabetizzazione digitale, allo sviluppo delle conoscenze tecniche e delle competenze trasversali e manageriali e all’accrescimento culturale e dei titoli di studio del personale correlati all’ambito d’impiego e alla progressione di carriera del personale; c) compatibilmente con le risorse finanziarie riconducibili al Piano di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli strumenti e gli obiettivi del reclutamento di nuove risorse e della valorizzazione delle risorse interne, prevedendo, oltre alle forme di reclutamento ordinario, la percentuale di posizioni disponibili nei limiti stabiliti dalla legge destinata alle progressioni di carriera del personale, anche tra aree diverse, e le modalita’ di valorizzazione a tal fine dell’esperienza professionale maturata e dell’accrescimento culturale conseguito anche attraverso le attivita’ poste in essere ai sensi della lettera b); d) gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attivita’ e dell’organizzazione amministrativa nonche’ per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione; e) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare ogni anno, anche mediante il ricorso alla tecnologia e sulla base della consultazione degli utenti, nonche’ la pianificazione delle attivita’ inclusa la graduale misurazione dei tempi effettivi di completamento delle procedure effettuata attraverso strumenti automatizzati; f) le modalita’ e le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilita’ alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilita’; g) le modalita’ e le azioni finalizzate al pieno rispetto della parita’ di genere, anche con riguardo alla composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi.

3. Il Piano definisce le modalita’ di monitoraggio degli esiti, con cadenza periodica, inclusi gli impatti sugli utenti, anche attraverso rilevazioni della soddisfazione dell’utenza mediante gli strumenti di cui al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nonche’ del monitoraggio dei procedimenti attivati ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198.

4. Le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 del presente articolo pubblicano il Piano e i relativi aggiornamenti entro il 31 dicembre di ogni anno sul proprio sito istituzionale e lo inviano al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri per la pubblicazione sul relativo portale. 5. Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, con uno o piu’ decreti del Presidente della Repubblica, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono individuati e abrogati gli adempimenti relativi ai piani assorbiti da quello di cui al presente articolo.

6. Entro il medesimo termine di cui al comma 4, il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, adotta un Piano tipo, quale strumento di supporto alle amministrazioni di cui al comma 1. Nel Piano tipo sono definite modalita’ semplificate per l’adozione del Piano di cui al comma 1 da parte delle amministrazioni con meno di cinquanta dipendenti.

7. In caso di mancata adozione del Piano trovano applicazione le sanzioni di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ferme restando quelle previste dall’articolo 19, comma 5, lettera b), del decreto-legge 25 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. 8. All’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo le amministrazioni interessate provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.




Recovery Plan, il malessere dei Comuni e dell’ANCI

“In materia di Recovery Plan abbiamo una governance molto politica che coinvolge Ministeri competenti a seconda dei temi da trattare e più tutta la struttura che verrà incardinata dentro al Mef dal punto di vista finanziario. In questa governance il ruolo dei Comuni non c’è, non ci siamo nella cabina di regia”. Ad affermarlo è Veronica Nicotra, segretario generale ANCI, intervenendo al terzo Tavolo tecnico organizzato dal Centro studi Enti locali e dal dipartimento Economia e management dell’Università degli Studi di Pisa nell’ambito del progetto “Next Generation Eu-EuroPa Comune”.

“Ci sono stati – ha ricordato la rappresentante ANCI – i primi due decreti attuativi delle riforme prescritte dal Recovery (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), eppure siamo particolarmente preoccupati per l’assenza e mancanza di chiarezza rispetto alla finalizzazione delle misure. Abbiamo un totale di circa 87 mld che dovrebbero essere destinati a Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane”.
“Il Paese – ha concluso Veronica Nicotra – deve spendere una mole di risorse enorme rispetto al tempo assegnato: parliamo di 200 mld da spendere in un quinquennio ed è un’illusione. Sicuramente i Comuni sono i maggiori investitori pubblici del nostro Paese, ma vogliono sapere cosa devono fare, con quante risorse e quali sono le regole amministrative”.

Recovery Plan: i sindaci chiedono l’assegnazione diretta delle risorse ai Comuni

“Noi sindaci delle grandi Città, a nome dei sindaci di tutti i Comuni italiani riuniti oggi nel Coordinamento ANCI dei Sindaci metropolitani, ribadiamo la necessità di veder riconosciute direttamente ai Comuni e alle Città le risorse del PNRR“. Esordisce così l’appello rivolto dai sindaci delle Città metropolitane al premier Mario Draghi: è necessario, sostengono i firmatari, instaurare un canale politico diretto con la Presidenza del consiglio e un tavolo permanente politico per concretizzare il coinvolgimento dei sindaci, superando la cabina di regia prevista dal Decreto Semplificazioni, vero artefice dell’esclusione degli Enti locali.

La partecipazione diretta dei Comuni – L’insoddisfazione degli amministratori è dovuta all’insufficienza del “ruolo riservato dal Dl Governance e Semplificazioni a Comuni e Città metropolitane. Chiediamo di partecipare direttamente e senza intermediazione alla gestione di alcune missioni di progetti, perché in questi anni abbiamo dato ampia dimostrazione di saper gestire gli investimenti con efficacia ed efficienza. Chiediamo che i finanziamenti siano diretti e non necessariamente intermediati dalle Regioni, applicando modelli di gestione già sperimentati dal Governo in occasione del Patto delle Città Metropolitane e del Pon Metro.” I sindaci domandano inoltre che i riparti siano condotti mediante “assegnazione automatica per classe demografica, stanziamenti a sportello su programmi nazionali e il finanziamento di progetti cosiddetti bandiera.”

I pericoli della sovrapposizione istituzionale – L’appello prosegue sottolineando la necessità che ogni livello di governo si assuma la responsabilità delle misure e delle risorse assegnate, garantendo tempi ed efficienza per gli interventi; sarà altrimenti impossibile investire le risorse assegnate alle condizioni che pone la Commissione UE: “Vogliamo fare il nostro lavoro e il nostro dovere per spendere bene e rapidamente le risorse; non accettiamo di aspettare anni di burocrazia e procedure per sapere chi fa che cosa. I cittadini hanno l’esigenza di vedere cantierizzati al più presto i progetti, quale risposta concreta generata sui territori dalle risorse assegnate dal PNRR. L’Europa ci chiede di realizzare e rendicontare i progetti entro il 2026: senza reali semplificazioni e risorse dirette sarà molto complicato rispondere ad una sfida epocale come quella del PNRR. La sovrapposizione tra diversi livelli istituzionali rischia di allungare i tempi e confondere le responsabilità.”




Quote rosa: il problema del rispetto della parità di genere nei piccoli Comuni

Fonte: Gazzetta degli Enti Locali

Le “quote rosa” non hanno vita facile nel sistema degli Enti locali, soprattutto nei piccoli Comuni. Tra i Comuni al di sotto dei 5mila abitanti delle Regioni a statuto ordinario che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale, infatti, solo uno su due ha raggiunto l’obiettivo “quote rosa”. In ben 176 casi su 351 i candidati uomini hanno sforato il tetto dei 2/3 e in 63 Comuni hanno rappresentato percentuali superiori all’80% del totale. Caso limite Samo, in Calabria, dove si è raggiunta quota 100%. Tutto ciò affiora emerge da una elaborazione effettuata dal Centro Studi Enti Locali per l’Adnkronos, basata su dati del Ministero dell’Interno.

Il tema della parità di genere nei Piccoli Comuni
Il tema della rappresentazione femminile nelle liste elettorali dei Piccoli Comuni è stato recentemente portato all’attenzione del Consiglio di Stato che si è pronunciato, mediante l’ordinanza n.  4294/2021, sollevando la questione di costituzionalità per la legge che regola le elezioni nei Comuni fino a 5mila abitanti per mancato rispetto del principio della parità di genere. I candidati di sesso femminile hanno superato quelli appartenenti al genere maschile soltanto in 14 Comuni.
I due generi sono stati equamente rappresentati in 12 Comuni (2 Piemonte, 2 Basilicata, 2 Lombardia, 1 Marche, 1 Molise e 4 Piemonte), ma le buone notizie si fermano qui.
In tutti gli altri casi, ovvero nel 93% del totale degli enti al di sotto dei 5mila abitanti coinvolti nelle amministrative del settembre 2020 (solo Regioni a statuto ordinario), i candidati di sesso maschile hanno ampiamente superato quelli di sesso femminile. Globalmente le donne (2.602 su 8.162) hanno rappresentato il 31,8% del totale, leggermente al di sotto quindi del terzo dei candidati complessivi.

La normativa vigente in tema di parità di genere
Ma cosa prevedono le norme vigenti? Esistono 3 discipline differenti da applicare ad altrettanti scaglioni demografici, con regole sempre meno stringenti man mano che decresce la popolazione. Nel caso dei Comuni con più di 15mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in ciascuna lista in misura superiore a due terzi dei candidati ammessi. Ove questo non accada, la Commissione elettorale circondariale può ridurre le liste cancellando, partendo dall’ultimo, i nomi dei candidati appartenenti al genere sovra rappresentato. Nel caso in cui, dopo questa riduzione, il numero di candidati ammessi sia inferiore a quello minimo previsto, scatta la ricusazione della lista. Per gli Enti con popolazione compresa tra 5mila e 15mila abitanti, in caso di violazione delle disposizioni a tutela della parità tra sessi, la lista viene ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati. Per i Comuni con popolazione inferiore ai 5mila abitanti – che in Italia rappresentano circa il 70% del totale – la spinta verso la parità di genere è decisamente più leggera. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, l’unica previsione di riequilibrio di genere è contenuta nell’art. 2 della legge 215/2012 che dispone che “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”.
Non è quindi prevista, a oggi, come si può leggere sul Giornale dell’ANCITEL, alcuna misura sanzionatoria a carico delle liste che non assicurino almeno un terzo di donne tra candidati. Se la Consulta dovesse avallare la posizione del Consiglio di Stato, promuovendo l’estensione ai Comuni più piccoli delle previsioni valide per gli enti dai 5mila abitanti in su, i consigli comunali italiani potrebbero cambiare volto in misura significativa.




Corte dei conti: Rapporto 2021 sulla finanza pubblica

Il documento approfondisce l’andamento complessivo dell’economia, la politica fiscale con il dibattito sulla riforma dell’IRPEF, la spesa e le iniziative sociali nonché la situazione di tutti i settori coinvolti dalla crisi emergenziale.

Il crollo del 2020

La previsione della magistratura contabile, dopo le pesanti perdite registrate nel 2020, parla addirittura di un aumento del 4,5% del PIL: la crescita potenziale, infatti potrà essere potenziata sfruttando al meglio gli investimenti pubblici e favorendo le iniziative imprenditoriali, assicurando a tal fine riforme strutturali e sostenibilità infrastrutturale e ambientale. L’annualità passata, infatti, ha subito il crollo del saldo primario che ha comportato l’aumento di quasi 8 punti dell’indebitamento netto: il rapporto fra debito e prodotto ha dunque toccato quota 155,8%. Una situazione non rosea, commenta la Corte, risolvibile mediante la creazione di un contesto più trasparente ed efficiente con le riforme su giustizia, PA, ammortizzatori sociali e fisco. Nello specifico, la riduzione del debito sarà possibile solo preservando tassi di interessi contenuti e favorendo la crescita dello stock complessivo di capitale nell’economia: “ciò dipenderà – ammonisce la Corte – dalle caratteristiche qualitative degli investimenti programmati del PNRR”.

Sanità e Enti locali

Per quanto concerne invece l’IRPEF, si sostiene la convinzione che le ipotesi d’intervento sul tema dovranno guardare all’efficienza e all’equità del sistema tributario nel suo complesso. Difatti, non è possibile trascurare gli obiettivi strategici rappresentati dal contrasto all’evasione e dal processo di semplificazione. Il rapporto si conclude facendo riferimento all’ammontare delle prestazioni sociali in denaro, prova concreta dello sforzo profuso dalle istituzioni per mitigare gli effetti della pandemia. Nello specifico, la spesa sanitaria ha raggiunto i 125 miliardi (+6,7% rispetto al 2019) compensando, in parte, le mancate prestazioni e gli interventi finanziari minimi nel settore degli ultimi anni. Impossibile non menzionare, infine, l’intensa attività degli Enti locali, che fanno registrare oltre 69 miliardi di investimenti a fronte di un valore di progetti pari a 145 miliardi: allo stato attuale, l’importante quota di risorse del Pnrr affidata alle Amministrazioni territoriali sembra essere in buone mani.




Decreto Sostegni bis: le norme di interesse per i Comuni

La nota esplicativa dell’ANCI relativa alle norme d’interesse dei Comuni contenute nel Decreto Sostegni bis, (decreto legge 25 maggio 2021, n. 73, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 123 del 25 maggio),  recante “Misure urgenti connesse all’emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali”. Il provvedimento verrà trasmesso alla Camera dei deputati in prima lettura per la conversione in legge.

 

Nota-sintetica-dl-Sostegni-bis




ISTAT: la digitalizzazione della PA procede, ma i Comuni sono in forte ritardo (e più sono piccoli, peggio è)

L’ISTAT conferma quanto ormai sappiamo da tempo. Dalla sua periodica rilevazione sull’utilizzo dell’ICT nelle PA locali è emersa un’alta percentuale di personale in servizio con accesso a internet e una ampia presenza di strumenti tecnologici. Tra i Comuni, tuttavia, non c’è grande disponibilità di strumenti tecnologici moderni. Solo il 60% infatti possiede una rete Intranet per il coordinamento comunicativo e informativo.

La diffusione delle competenze nelle PA
Nell’area organizzativa e strategica, sono davvero pochi i Comuni che investono nello sviluppo di competenze interne e nella formazione del personale in materia di tecnologie ICT: nel 2018 solo il 7,3% del personale ha partecipato ad attività formative in materia. Molto più diffuso il ricorso a società esterne. Sussiste però un buon livello nella gestione delle principali funzioni amministrative, nonostante ancora il 40% dei Comuni utilizzi ancora procedure analogiche. Si registra un generale miglioramento della disponibilità di strumenti online: oltre nove Comuni su dieci permettono di acquisire on line modulistica e quasi tutti (98,3%) forniscono online informazioni. Purtroppo, specie nei Comuni più piccoli, la diffusione dei servizi interamente online è ancora limitata. Le regioni nelle quali è più diffusa l’offerta dei servizi online sono Umbria, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto; tra quelle meno performanti, figurano la Valle d’Aosta, il Molise, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Calabria.

I servizi online offerti
La maggior parte dei servizi online adibiti dalle PA sono destinati alle imprese, sia tra i Comuni grandi che in quelli fino a 5mila abitanti. Ad ogni modo, l’offerta interattiva dei Comuni più piccoli si concentra su livelli di informatizzazione molto bassi. Nel 2018 è stato misurato per la prima volta un indicatore di risultato in termini di pratiche evase online sul totale: per i quattro servizi alle imprese analizzati, la gran parte dei Comuni che hanno dichiarato un’offerta online più matura e hanno indicato anche quote elevate di moduli ricevuti o di pratiche evase interamente online, con un’incidenza compresa tra il 71% e il 100% del totale dei moduli ricevuti e delle pratiche evase. Per quanto riguarda le modalità di accesso ai servizi, il 20,5% dei Comuni dichiara che, nel 2018, l’utenza può accedere ai servizi online attraverso l’identità digitale (Spid); per i Comuni più grandi (oltre i 60mila abitanti), tale quota sale al 58,2%, mentre è pari ad appena il 15,8% per quelli fino a 5mila abitanti. Il Censimento permanente delle istituzioni pubbliche è una rilevazione diretta, rivolta a tutte le istituzioni pubbliche e alle unità locali ad esse afferenti. Nella seconda edizione del Censimento, svolta nel 2018 sono state rilevate 12.848 istituzioni pubbliche, articolate sul territorio in 63.414 unità locali. Le informazioni raccolte permettono di cogliere il livello di digitalizzazione sotto questi profili, allargando il quadro all’insieme delle amministrazioni e delle istituzioni della PA. Tra i canali disponibili per acquisire informazioni, lo sportello fisico resta quello più utilizzato dalle unità locali di tutte le tipologie istituzionali. Fanno eccezione le Città metropolitane e l’Università pubblica, per le quali il canale più utilizzato è il sito istituzionale. Le unità locali delle Università pubbliche si confermano più digitalizzate delle altre tipologie istituzionali, consentendo di svolgere tutte le operazioni previste attraverso canali online.




Chiarimenti sull’aspettativa per il dipendente che svolge attività professionali o imprenditoriali

Il dipendente pubblico che intenda avviare un’attività professionale e imprenditoriale può godere del collocamento in aspettativa, senza assegni né decorrenza dell’anzianità, per un periodo massimo di dodici mesi. È comunque esclusa da tale ipotesi la stipula di contratti di lavoro subordinato con datori di lavoro privati. Lo ha chiarito il Dipartimento della Funzione pubblica con il parere del 24 marzo 2021, n. 19365.

Il quesito rivolto al Dipartimento concerne la possibilità per il dipendente di una Provincia di svolgere contemporaneamente un’attività di lavoro subordinato presso un privato sfruttando l’aspettativa ex articolo 18 della legge n. 183/2010. Secondo il Dipartimento questa disposizione, come modificata dall’articolo 4, comma 2, della legge n. 56/2019, consente ai dipendenti pubblici di essere collocati in aspettativa, privi di assegni e senza decorrenza dell’anzianità, qualora gli stessi siano intenzionati ad avviare attività economiche o imprenditoriali.

Per tale periodo non si applicano le disposizioni in tema di incompatibilità dettate dall’articolo 53 del d.lgs n. 165/2001, norma che impedisce ai dipendenti pubblici l’esercizio del commercio, dell’industria, dell’attività professionale o l’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati. Dunque, considerando che l’aspettativa di cui trattasi agisce in deroga alla disciplina generale sopraccitata, la stessa dev’essere concessa previo esame della documentazione presentata dall’interessato. Ad ogni modo, conclude il Dipartimento, poiché il legislatore del 2019 fa cenno alle sole attività professionali e imprenditoriali, si ritiene comunque preclusa ai dipendenti pubblici la stipula di contratti di lavoro subordinato con datori di lavoro privati, per quanto attiene al regime dell’aspettativa in esame.

 IL PARERE DEL DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA DEL 24 MARZO 2021, N. 19365.




Illegittimo il ricorso alle ferie dell’anno corrente per fronteggiare la emergenza Covid

Pubblichiamo una importante sentenza del Tribunale di Milano – Sezione Lavoro che ha accolto il ricorso presentato da una lavoratrice del Comune di Pieve Emanuele contro la condotta mantenuta dal Comune stesso di collocarla in ferie, utilizzando n.6 giorni maturati nell’anno 2020, non potendo essa svolgere la propria prestazione in modalità agile durante il periodo emergenziale, invece di riconoscerle l’esenzione dal servizio con regolare retribuzione, come stabilito dall’art. 87, co. 3, d.l. n. 18/2020.

SENTENZA TRIBUNALE MILANO




Fondo per l’esercizio delle funzioni degli Enti locali: il riparto

Il report della Conferenza Stato-Città, della seduta straordinaria del 25 marzo 2021, con l’importante approvazione dello schema di decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, recante i criteri e le modalità di riparto dell’incremento di 220 milioni di euro del fondo per l’esercizio delle funzioni degli Enti locali, di cui all’art. 106, comma 1, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34.

Report_25-marzo-2021

Scheda allegati-1 




Analisi del fondo per le posizioni organizzative

A. Bianco (La Gazzetta degli Enti Locali 19/2/2021)

Le amministrazioni locali e regionali possono dare corso ad un incremento del fondo per le posizioni organizzative solamente nelle ipotesi che sono previste dalla normativa. Il contratto collettivo nazionale di lavoro del 21 maggio 2018, che ha riscritto le regole da applicare, consente tale aumento esclusivamente attraverso la contrattazione decentrata, con lo spostamento di somme del fondo per le risorse decentrate, non prevedendo quindi – a differenza di quanto previsto per il personale e per la dirigenza – delle possibilità di incremento autonomo. Questi incrementi ovviamente devono essere contenuti nel tetto complessivo del salario accessorio, di cui all’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, cioè quanto previsto nell’anno 2016. Le disposizioni di legge e le letture che ne sono state fornite dall’ARAN e dalla RGS consentono di operare questi incrementi, anche senza la preventiva contrattazione e non effettuando alcun taglio del fondo per il personale. Le amministrazioni decidono sulla utilizzazione dei risparmi che si sono determinati nella utilizzazione delle risorse destinate al finanziamento del salario accessorio delle posizioni organizzative.

La costituzione

La costituzione del fondo per le posizioni organizzative deve essere effettuata dalle amministrazioni, come per la individuazione di tutte le risorse destinate al salario accessorio. Le regole sono definite nel contratto nazionale in modo molto netto ed univoco: le risorse che l’ente ha destinato al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato nell’anno 2017. Negli enti con la dirigenza, ciò determina una corrispondente riduzione della parte stabile del fondo per le risorse decentrate.
L’importo delle risorse destinate al finanziamento delle posizioni organizzative può essere una tantum ridotto dalle amministrazioni, previo confronto con le organizzazioni sindacali, ma a condizione che i risparmi vengano destinati al finanziamento del fondo per la contrattazione decentrata. Nel parere ARAN CFL 38 leggiamo testualmente: “non sembrano sussistere impedimenti contrattuali a che un ente riduca per un periodo definito, ad esempio per un anno, lo stanziamento delle risorse destinate nel 2017 al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative previste dall’ordinamento dell’ente, ampliando in tal modo le possibilità di incrementare, per quell’anno, le risorse del Fondo del personale (previo confronto sindacale, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. g), del CCNL del 21 maggio 2018 e utilizzando gli strumenti dell’art. 67 del medesimo CCNL del 21 maggio 2018). L’anno, successivo, invece, l’ente potrà ripristinare lo stanziamento delle risorse destinate nel 2017 al finanziamento delle posizioni organizzative, senza necessità di ricorso alla contrattazione integrativa, come previsto dall’art.7, comma 3, lett. u), del CCNL del 21 maggio 2018”.

La destinazione dei risparmi

Spetta alle amministrazioni decidere la utilizzazione dei risparmi che si sono determinati. Il parere ARAN CFL 123 ci dice che “non sembrano sussistere impedimenti a che la percentuale minima del 15% prevista dal CCNL possa essere implementata, con riferimento ad un anno, con le risorse già finalizzate al finanziamento della retribuzione di posizione in quel medesimo anno le quali, a consuntivo, risultino non essere state effettivamente utilizzate. Pertanto, in sede di contrattazione integrativa, potrebbero essere stabiliti anche i criteri per incrementare, in presenza di tali ulteriori risorse, il valore già determinato in via ordinaria per la retribuzione dei risultato dei titolari di posizione organizzativa (fermo restando, comunque, la necessità di garantire, in via prioritaria, le risorse necessarie per gli eventuali incrementi della retribuzione di risultato dei titolari di posizione organizzativa, cui sia stato affidato l’incarico ad interim di altra posizione organizzativa). In tal modo le risorse non utilizzate sarebbero impiegate nello stesso anno in cui si è determinato il risparmio, senza neppure problemi di trasporto nell’anno successivo. Ove tale percorso non sia ritenuto conforme agli interessi dell’ente, questo potrebbe anche decidere di non ricorrervi, considerando le risorse comunque non utilizzate in sede di erogazione della retribuzione di risultato di un determinato anno come mere economie di spesa”.
Si deve aggiungere che, a parere di chi scrive, si devono inoltre applicare anche a queste risorse le indicazioni dell’ARAN sui risparmi nella utilizzazione del fondo della dirigenza che derivano nella retribuzione di risultato a seguito di valutazioni non positive o non interamente positive. Tali risorse vanno in economia al bilancio dell’ente.

L’incremento

Il fondo per le posizioni organizzative può essere incrementato nelle 3 ipotesi previste dalla normativa e dalla contrattazione collettiva, ma può essere anche aumentato se diminuiscono gli altri fondi per il salario accessorio a condizione che si rimanga nel tetto dell’anno 2016.
La prima ipotesi di aumento del fondo per la retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative è disciplinata dall’articolo 11 bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 e riguarda esclusivamente i comuni senza dirigenza. Ci viene detto che il tetto al salario accessorio delle posizioni organizzative può essere superato “limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del CCNL e l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”. Queste risorse si devono considerare in deroga al tetto del fondo per il salario accessorio di cui all’articolo 23 del d.lgs. n. 75/2017, cioè il tetto delle somme destinate a questo titolo nell’anno 2016. La norma si deve considerare pienamente in vigore anche alla luce delle modifiche alle capacità assunzionali introdotta dall’articolo 33 del d.l. n. 34/2019. Siamo quindi in presenza di una disposizione che è diretta solamente ai comuni senza dirigenti; essa consente l’aumento delle risorse per il salario accessorio delle posizioni organizzative esistenti e non l’incremento del loro numero.
La seconda ipotesi è prevista dall’articolo 33 del d.l. n. 34/2019 e si realizza nel caso in cui vi sia un aumento del personale in servizio rispetto al 31.12.2018. In questo caso, occorre mantenere inalterata la incidenza media pro capite del trattamento economico accessorio del personale e delle posizioni organizzative. Di conseguenza, si procede all’aumento di tali due fondi in modo da mantenere invariato il salario medio pro capite in godimento nell’anno 2018. Spetta agli enti decidere in quale parte questo incremento deve essere destinato al fondo per il personale dipendente e per quale quota invece viene destinato al fondo per il salario accessorio delle posizioni organizzative. Si deve evidenziare che, non essendo previsto un incremento diretto di tali fondi, ma esclusivamente la possibilità di superare il tetto, la realizzazione concreta di questo aumento si deve realizzare attraverso gli istituti previsti dal contratto nazionale. In primo luogo si deve immaginare, per il personale, il ricorso all’articolo 67, comma 5, lettera a) del CCNL 21 maggio 2018, cioè “l’incremento delle dotazioni organiche, al fine di sostenere gli oneri dei maggiori trattamenti economici del personale”. Inoltre, si può fare riferimento anche alla lettera b) della prima citata disposizione, cioè il “conseguimento degli obiettivi dell’ente”. Inoltre, la RIA dei dipendenti cessati, che va inserita nel fondo, può a questo punto essere inserita nell’ambito dell’aumento che va in deroga al tetto del salario accessorio. Quindi, una previsione che consente questo incremento, ma solamente nel caso di aumento del numero dei dipendenti in servizio, peraltro solamente a tempo indeterminato per la lettura data dalla RGS.
La terza ipotesi è prevista dall’articolo 8, comma 2, lettera u) dello stesso CCNL 21 maggio 2028, in base al quale la contrattazione collettiva decentrata integrativa può disporre l’aumento del fondo per la retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, con risorse tratte dal fondo per le risorse decentrate del personale.
Si deve inoltre evidenziare che, come ricordato dall’ARAN, il taglio del fondo dei dirigenti e/o di quello del personale può liberare risorse da destinare all’incremento del fondo per le posizioni organizzative, quindi senza un passaggio diretto, ma creando le condizioni attraverso cui si possa realizzare questa osmosi attraverso una deliberazione dell’ente. Il parere dell’ARAN fa riferimento alle indicazioni dettate dalla circolare della Ragioneria Generale dello Stato n. 16/2020, che contiene le istruzioni per la compilazione del conto annuale del personale. In tale circolare viene evidenziato che il tetto al trattamento economico accessorio è complessivo e non le singole voci. Leggiamo inoltre testualmente che la introduzione del tetto complessivo al salario accessorio “consente di incrementare fino alla concorrenza del limite generale della retribuzione accessoria dell’intera amministrazione le risorse di una categoria di personale in presenza di una corrispondente diminuzione di quelle disposte per una diversa categoria. Ciò può avvenire per espressa previsione del CCNL, come è il caso del trasferimento dal fondo per il trattamento accessorio del personale non dirigente delle Funzioni locali alle disponibilità destinate a bilancio in favore delle posizioni organizzative. Ciò può altresì avvenire quando, in applicazione di ordinarie facoltà disposte dal CCNL, si disponga la riduzione delle risorse aggiuntive che la parte datoriale aveva in precedenza appostato ai fondi per la contrattazione integrativa, anche di parte fissa, di una categoria di personale. Tale rimodulazione verso il basso consente, ancora in applicazione di ordinarie facoltà disposte dal CCNL, di incrementare fino alla concorrenza del limite generale, le risorse di una diversa categoria di personale”. Di conseguenza, siamo in presenza di una lettura che sembra superare la inesistenza di una norma contrattuale che consente di incrementare il tetto del fondo per le posizioni organizzative.




Digitalizzazione PA: in arrivo nuove risorse per gli Enti locali

Procede a pieno regime il percorso di riforme e iniziative che condurrà le Amministrazioni pubbliche, finalmente, al traguardo ormai irrimandabile della transizione digitale. Sono davvero pochi i giorni che ci separano dallo switch-off integrale a favore delle identità digitali e dall’esclusiva fruibilità online dei servizi delle PA. Inoltre, è ormai prossimo all’attivazione il Fondo per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione

L’agenda della transizione digitale

Il decreto legge n. 76/2020 (cd. Decreto Semplificazioni) ha fissato due scadenze strategiche: la prima, quella fatidica, è il 28 febbraio 2021, giorno a partire dal quale viene disposto l’utilizzo esclusivo delle identità digitali, della carta d’identità elettronica e della Carta Nazionale dei Servizi, quali strumenti di identificazione dei cittadini che accedano ai servizi online. Contestualmente, sarà anche vietato alle amministrazioni di rilasciare o rinnovare credenziali diverse da queste per le interazioni digitali con gli Enti locali. Sempre il 28 febbraio, inoltre, diventerà obbligatorio rendere fruibili i servizi in rete tramite l’app IO, per smartphone e tablet, e sarà anche il giorno da cui decorrerà l’obbligo per i prestatori di servizi di pagamento abilitati, come ad esempio le banche e le poste, di utilizzare esclusivamente la piattaforma PagoPA per i pagamenti verso le pubbliche amministrazioni.
Entro il 31 dicembre 2021  gli Enti locali dovranno spostare almeno il 70% dei servizi di incasso su PagoPA, dal pagamento della TARI a quello della refezione scolastica. In altre parole, saranno tenuti ad attivare almeno 10 servizi digitali sull’app IO, come le operazioni di anagrafe o quelle degli sportelli edilizia, e infine completare il passaggio allo SPID come strumento unico per l’accesso alle funzioni online dei Comuni.

Risorse strutturali per la transizione digitale

Proprio per garantire le risorse strutturali necessarie a ultimare il processo di trasformazione, sono in dirittura di arrivo le risorse del Fondo per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione; misura questa specificatamente creata per supportare le PA locali nell’implementazione delle buone pratiche inerenti alla transizione digitale: previsti 50 milioni l’anno. A tale scopo il Governo ha reso permanente la misura in aiuto ai Comuni: ciascuna Amministrazione potrà partecipare all’assegnazione, seguendo i dettami dell’avviso pubblico annuale, degli stanziamenti che tengono conto della densità abitativa di ciascun Ente.




Funzioni locali: per i dirigenti 190 euro di aumento

Il Consiglio dei ministri del 2 dicembre, n. 82, ha deliberato l’autorizzazione per il ministro per la Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, ad esprimere il parere favorevole del Governo sull’ipotesi di contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale dell’Area Funzioni Locali per il triennio 2016-2018, sottoscritta lo scorso 16 luglio dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e dalle confederazioni e organizzazioni sindacali di categoria. L’ipotesi di contratto ora dovrà essere certificata dalla Corte dei conti prima della stipula definitiva che si presume avverrà nel corso dell’anno. Si ricorda che il contratto riguarda anche i segretari comunali e provinciali, oltre che i dirigenti degli Enti locali.

L’incremento per i dirigenti

È contemplato, per quel che concerne il rinnovo dei contratti dei dirigenti, un incremento fino al 3,48%. Ciò equivale a un ammontare complessivo mensile di quasi 190 euro, ripartito tra la rivalutazione della parte fissa compresa nella retribuzione e le somme erogate in sede locale e finalizzate alla remunerazione dovuta alle condizioni di lavoro, ai risultati raggiunti e agli incarichi dirigenziali. Circa la rivalutazione tabellare a regime, si parla di 125 euro al mese, a cui vanno ad aggiungersi gli incrementi di parte accessoria, connessi con gli istituti retributivi relativi all’erogazione dei servizi.




Il rinvio delle elezioni RSU nel testo del Decreto Ristori quater

Come è noto, nel Disegno di Legge di Bilancio 2021 era stato disposto, all’art.163,  il rinvio della data di scadenza della rilevazione delle Deleghe e delle elezioni RSU. Dopo di che, l’articolo è stato stralciato dal Presidente della Camera, insieme ad altri, e quindi inserito nel testo del Decreto Risotori quater, pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale. Nessun variazione rispetto alla formulazione originaria.

Art. 15

1. Differimento delle elezioni degli organismi  della rappresentanza sindacale  1. Tenuto conto dell’emergenza epidemiologica in atto, con riferimento al periodo contrattuale 2022-2024, i dati relativi alle deleghe rilasciate a ciascuna amministrazione, necessari per l’accertamento della rappresentativita’ di cui all’articolo 43 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono rilevati alla data del 31 dicembre 2021 e trasmessi all’ARAN non oltre il 31 marzo dell’anno successivo dalle pubbliche amministrazioni, controfirmati da un rappresentante dell’organizzazione sindacale interessata, con modalita’ che garantiscano la riservatezza delle informazioni. In via eccezionale e con riferimento al periodo contrattuale 2022-2024 sono prorogati, in deroga all’articolo 42, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001, gli organismi di rappresentanza del personale anche se le relative elezioni siano state gia’ indette. Le elezioni relative al rinnovo dei predetti organismi di rappresentanza si svolgeranno entro il 15 aprile 2022.

2. Gli appositi accordi di cui all’articolo 42, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per le elezioni per il rinnovo delle rappresentanze sindacali unitarie, possono prevedere il ricorso a modalita’ telematiche in funzione dello snellimento delle procedure anche con riferimento alla presentazione delle liste ed alle assemblee sindacali.