Le capacità assunzionali ed il salario accessorio delle posizioni organizzative

Le amministrazioni comunali prive di dirigenti possono continuare a destinare una parte delle proprie capacità assunzionali all’aumento del salario accessorio delle posizioni organizzative in essere alla data di entrata in vigore del CCNL 21 maggio 2018.

Sono queste le indicazioni che, in modo consolidato, vengono fornite dalle sezioni regionali di controllo della magistratura contabile. Esse assumono, quindi, che le disposizioni di cui all’articolo 11 bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 che consentono di aumentare le somme destinate al finanziamento del salario accessorio delle posizioni organizzative in essere nell’ente in deroga al tetto del salario accessorio, continuano ad essere pienamente applicabili, non essendo state abrogate, neppure implicitamente, dalla entrata in vigore delle nuove regole sulle capacità assunzionali di cui all’articolo 33 del d.l. n. 34/2019.

Anzi, per le amministrazioni virtuose, che ricordiamo sono quelle che possono aumentare la propria spesa del personale entro i tetti fissati dal Decreto dei Ministri della Pubblica Amministrazione, dell’Economia e delle Finanze e dell’Interno del 17 marzo 2020, ciò si traduce in un ampliamento delle somme a propria disposizione.

Ricordiamo che in modo consolidato le Corti dei conti ritengono che questo incremento non possa essere utilizzato per finanziare la istituzione di nuove posizioni organizzative, anche negli enti senza dirigenza; il che finisce con il determinare un limite assai rilevante alla autonomia organizzativa delle singole amministrazioni.




È danno erariale l’assenza di differenziazione nella valutazione dei dipendenti

(estratto da: La Gazzetta degli Enti Locali)

La sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Lombardia 27 agosto 2020, n. 132 evidenzia la produzione del danno erariale conseguente alla violazione dell’obbligo imposto dall’articolo 18, comma 2, del d.lgs. 150/2009 di differenziare la valutazione dei dipendenti.

Nel caso di specie, la sentenza entra in un quadro di condanne più ampio, che ha riguardato le valutazioni del 2011 presso la provincia di Pavia, ove il presidente aveva assegnato a tutti i dirigenti la medesima valutazione o ove, sulla base di un sistema organizzativo eufemisticamente qualificabile come bizzarro, i dirigenti di vertice hanno valutato i dirigenti in posizione organizzativa (sic) adeguandosi all’appiattimento valutativo del presidente.

La sostanza è questa: “L’illiceità dell’erogazione del trattamento stipendiale accessorio (in particolare dell’indennità di risultato dirigenziale) in assenza di una differenziazione basata sull’analisi dei risultati gestionali costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Corte dei conti (tra i tanti pronunciamenti, si vedano Corte dei conti, Sez. I App. n.241/2018; id. sez. III App. n.609/2016; id., Sez. Puglia, n.217/2019; id., III App., n.301/2015; id, Sez. Veneto, n.481/2009), con conseguente perfezionamento, nel caso di specie, di un’ipotesi di responsabilità erariale”.

Scrive inoltre la Corte: “Il fondamento dell’illecito consiste nell’aver sostanzialmente annientato la valutazione dei dirigenti ed aver disposto, in palese assenza di motivazione ed a fronte, per contro, della laboriosa istruttoria precedentemente espletata con riguardo alle attività svolte all’interno dei singoli settori (ancorchè rivelatasi carente ed insufficiente secondo i rappresentanti del Nucleo di Valutazione) un giudizio di attribuzione del massimo punteggio a tutti i dirigenti in posizione organizzativa”.
Si rappresenta in concreto una situazione estremamente frequente: gli enti adottano complicati sistemi di valutazione ed attribuzione dei punteggi, richiedenti appunto istruttorie laboriose, produzione di documenti, necessità di contraddittorio con i destinatari, schede, proposte, interventi dell’organo di governo. Un polverone (favorito dalle velleitarie disposizione normative) dietro il quale, poi, nascondere appunto l’annientamento della valutazione: attribuire a tutti la stessa valutazione significa non valutare.

Apporto del Nucleo di valutazione. La Procura contabile aveva poggiato l’illiceità della valutazione appiattita ed uguale per tutti anche sulla base dell’assenza della sottoscrizione delle schede da parte del Nucleo di valutazione.

La sentenza, tuttavia, non dà molto rilievo a questo aspetto. Afferma che la responsabilità amministrativa non sia dipesa dalla necessità o meno dell’intervento del Nucleo, bensì dalla valutazione rapportata al massimo per tutti in modo non differenziato.

Iniziativa del presidente della provincia. Del resto, l’idea di valutare tutti i dirigenti al massimo è del presidente della provincia di Pavia, che, pur tenendo conto dell’istruttoria valutativa, ha ritenuto comunque di procedere in tal modo, in relazione alla “particolare contingenza gestionale del 2011”.

Non risulta ancora chiaro, negli Enti locali, che sebbene il Nucleo di valutazione o l’Organismo indipendente di valutazione elabori una “proposta” di valutazione rivolta all’organo di governo, questo non ha la possibilità di annullare totalmente gli esiti di un’azione integralmente di carattere tecnico.

La proposta dei valutatori non è definita vincolante dalla norma, il che dà spazio per eventuali interlocuzioni tra organo di governo e valutatore, allo scopo di comprendere meglio gli esiti e poterli mettere anche in discussione. Ma, allo scopo, nel rispetto della dialettica tra proposta e provvedimento finale, tale ultimo potrebbe sconvolgere la proposta solo con una motivazione profonda, del medesimo valore e tenore tecnico.
È da escludere che l’organo di governo disponga di un potere apodittico di stravolgimento totale dell’operato dell’organo valutatore, come avvenuto nel caso di specie.

 Obbligo di differenziazione. La sentenza colpisce la violazione dell’obbligo imposto in maniera molto chiara dall’articolo 18, comma 2, del d.lgs 150/2009 (norma tra le più violate dell’ordinamento): “E’ vietata la distribuzione in maniera indifferenziata o sulla base di automatismi di incentivi e premi collegati alla performance in assenza delle verifiche e attestazioni sui sistemi di misurazione e valutazione adottati ai sensi del presente decreto”.

Nonostante ciò, molte amministrazioni violano questo espresso come questo, forse per la presunta assenza di sanzioni. Ma, al di là della circostanza che la sanzione c’è, come dimostra la sentenza, è sufficientemente chiaro che in ogni caso il principio di legalità dell’azione amministrativa vincola le scelte e non consente di violare le norme.

In ogni caso, c’è da chiedersi se la corretta applicazione delle previsioni contrattuali che obbligheranno anche per la dirigenza a differenziare la valutazione individuale con una quota non inferiore al 30% del valore medio pro-capite delle valutazioni escluderà, in futuro, la responsabilità per inadempimento alla prescrizione normativa.

Prescrizione. La sentenza ribadisce che la prescrizione di fatti dannosi per l’erario non decorre dal loro compimento, bensì dalla conoscibilità effettiva ed utile per porvi rimedio.

Nel caso di specie, l’illecita distribuzione dei premi è stata disvelata solo a seguito dell’ispezione ministeriale; quindi la prescrizione decorre dagli esiti di questa, anche se svolta anni dopo l’adozione dei provvedimenti dannosi.

Dirigenti p.o. La provincia di Pavia si era organizzata distinguendo dirigenti di vertice e dirigenti in posizione organizzativa, di fatto configurata come fossero posizioni organizzative del comparto, ma retribuiti con stipendio da dirigenti.

Un paradosso insensato, tanto più che il sistema di valutazione della provincia di Pavia prevedeva che il sistema di valutazione dei dirigenti p.o. fosse omologato appunto a quello dei funzionari in posizione organizzativa. Si tratta di una violazione clamorosa dei contratti collettivi e delle disposizioni normative connesse alle prerogative dirigenziali.

La Corte non si esprime esplicitamente su questo sistema fortemente viziato di configurare la dirigenza, ma scrive: “avuto riguardo al quadro normativo di riferimento, deve riconoscersi che l’assetto ordinamentale non risultava obiettivamente chiaro in ordine alla possibilità che i dirigenti non apicali degli enti locali potessero essere valutati direttamente dal dirigente di vertice alla stregua dei funzionari in p.o. e senza l’intervento di un organo terzo di controllo. Da un lato effettivamente la disciplina dell’Organismo Indipendente di Valutazione della performance di cui all’art.14 D.Lgs. n.150/2009, prevedeva e prevede che la valutazione di tale organo sia limitata ai dirigenti di vertice, dall’altro lato, tale disciplina non trovava invero applicazione diretta presso la Provincia di Pavia, la quale continuava a regolare le attività di controllo tramite i Nuclei di Valutazione previsti dalle previgenti norme sopra richiamate. Le disposizioni regolamentari interne non prevedevano differenziazioni di regime tra 32 i dirigenti apicali ovvero in posizione organizzativa e l’indennità di risultato era disciplinata nel medesimo contesto procedimentale. Tuttavia la Provincia di Pavia, con la Deliberazione della Giunta n.74/2010, aveva previsto una assimilazione della valutazione dei dirigenti in p.o. a quella dei funzionari in p.o., prevedendo che questi ultimi venissero valutati dal dirigente sovraordinato”.

 Responsabilità della dirigente condannata. Questo assetto ordinamentale oggettivamente assurdo e viziato è, tra l’altro, all’origine della condanna pronunciata contro la dirigente che ha valutato un altro dirigente in p.o., sempre riconoscendo il massimo e senza alcuna specifica indagine valutativa, alla stregua di quanto deciso dal presidente della provincia per gli altri dirigenti.

La Corte tiene a precisare che si tratta di una responsabilità integralmente ascrivibile alla sola dirigente, molto chiaramente indotta alla piaggeria da una cattiva interpretazione del ruolo e delle funzioni della dirigenza e, in particolare, della sua autonomia tecnica.

Inoltre, nega, come del resto da sempre ritiene la magistratura contabile, che una presunta “copertura politica” possa esimere da responsabilità i dirigenti che, rinunciando alle prerogative d’ufficio, pensano di basare la loro gestione non sulle regole tecniche o sulle norme, bensì su mal concepite ed interpretate “linee politiche”.

Mancata consulenza giuridica del segretario. La sentenza evidenzia che il segretario comunale è mancato al dovere di supportare con la propria funzione di consulenza giuridico amministrativa l’attività valutativa.
Questo, tuttavia, non rileva al fine di escludere la responsabilità della dirigente condannata, ma solo a ridurre del 10% il valore della somma da risarcire.

Programmazione della gestione. Il potere riduttivo è stato esercitato riducendo del 50% la determinazione del danno (corrispondente ovviamente al premio corrisposto) in ragione della circostanza che l’avvenuta programmazione delle attività consentiva anche a posteriori un minimo di valutazione dell’operato della dirigenza.
Infatti, evidenziano i giudici, “può essere ritenuto equo limitare il danno erariale concretamente subito dall’ente ad una quota pari al 50% delle somme premiali erogate, in linea con la previsione delle Linee Guida interne (pag.5 di 6) secondo la quale il trattamento premiale per i risultati di gestione si sarebbe potuto ammettere a condizione che fosse stato superato il 50% degli obiettivi assegnati (circostanza questa ragionevolmente verificatasi in concreto, anche alla luce dell’intervenuta presa d’atto della Giunta Provinciale dei risultati raggiunti dai dirigenti)”.




Al via le richieste di anticipo del TFS/TFR dei dipendenti pubblici

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 5 settembre è stato pubblicato il Dpcm 19 agosto 2020 contente l’approvazione dell’Accordo quadro per il finanziamento bancario dell’anticipo sulla liquidazione dell’indennità di fine servizio (TFS, TFR altrimenti denominata e determinata) dei dipendenti pubblici, così come previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26.

Il Decreto era stato annunciato dal Ministro Dadone nei giorni scorsi, assieme alla piattaforma telematica che servirà a gestire le richieste e l’intera procedura di erogazione.

Domanda di anticipo TFS/TFR

Il Decreto contiene in allegato il modello di domanda di anticipo della liquidazione ed anche quello di richiesta di finanziamento contro cessione pro solvendo del TFR/TFS.

L’importo dell’anticipo è determinato sulla base degli importi dell’indennità al netto delle imposte. Il tasso di interesse annuo (non inferiore a 0,40%) è fisso, pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) con durata analoga al finanziamento, maggiorato di 0,40%.  Ai fini delle condizioni del finanziamento, le banche aderenti possono offrire anche condizioni migliorative rispetto a quelle previste dall’Accordo.

I finanziamenti di anticipo TFS/TFR possono anche essere ceduti dalla banca, in tutto o in parte, ma conservando sempre  le medesime garanzie che assistono i finanziamenti originari.

E’ possibile procedere con l’estinzione anticipata del finanziamento stesso (anche parziale), pagando per importi residui superiori a 10mila euro una penale massima dello 0,30% dell’importo rimborsato in anticipo.

Il provvedimento contempla le varie casistiche del caso, a partire dalle richieste avanzate dai dipendenti pubblici andati in pensione con la Quota 100.

MODULISTICA RICHIEDENTE

Di seguito sono disponibili i seguenti moduli:

  • Richiesta di finanziamento contro cessione pro solvendo dell’indennità di fine servizio comunque denominata – Proposta contrattuale di finanziamento verso l’anticipo della liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque denominata ex art. 23, del dl n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n.a 26 (scarica il documento).
  • Domanda di anticipo della liquidazione del TFS/TFR, mediante finanziamento ex art. 23, del dl n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 (scarica e compila).
  • Autocertificazione dello stato di famiglia (scarica e compila).

Ai fini della richiesta della certificazione del diritto all’anticipazione, se l’ente che eroga il trattamento è l’INPS, la domanda dovrà essere presentata secondo le istruzioni indicate nell’apposita sezione del portale dell’Istituto.




Anche il Tribunale di Ivrea conferma la non obbligatorietà del Fondo Perseo Sirio

A seguito della ben nota sentenza del Tribunale di Arezzo, il Tribunale di Ivrea ha confermato che i lavoratori dipendenti del Comune – nella fattispecie un agente di Polizia Locale – di mantenere l’iscrizione al proprio fondo pensionistico e conseguentemente di destinare al fondo stesso le quote di sua spettanza dei proventi di cui all’art.208 Dlgs. 285/92 (proventi delle sanzioni amministrative) maturate dopo il 21 maggio 2018.

In altri termini, il Tribunale di Ivrea ha dichiarato l’illegittimità della delibera con cui il Comune non consentiva ai lavoratori di poter mantenere la precedente adesione ad un Fondi diverso dal Perseo Sirio, per contrasto con l’art. 56 quater del CCNL Funzioni Locali del 21/5/2018.

 

Sentenza Ivrea fondo Perseo Sirio




Compenso incentivante da liquidare anche se l’opera pubblica non è realizzata

tratto da leggiditalia.it
La PO dell’area tecnica e RUP al fine di ottenere il compenso incentivante ai sensi dell’art. 113, comma 2D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 ha presentato una “dichiarazione sulla corretta effettuazione delle attività e prestazioni affidategli e sullo svolgimento delle stesse senza errori e/o ritardi” e predisposto la relativa determina di liquidazione. Tra gli appalti per i quali si chiede l’incentivo se ne riscontra uno in particolare che ha dato avvio ad un lungo contenzioso con sentenza del Consiglio di Stato che ha dato ragione al ricorrente. Si chiede se sussistono elementi per non liquidare l’incentivo per il caso in questione ed chi può decidere nel merito (segretario/giunta).
Il quesito proposto trova risposta in una recente sentenza della Corte di Cassazione Civile, Sez. lavoro n. 10222 del 28 maggio 2020.
Nel caso di specie è esaminata una vicenda in cui gli incentivi tecnici non sono stati liquidati dall’Ente perchè l’opera pubblica non è stata più realizzata ma le conclusioni cui sono addivenuti i giudici sono assimilabili al caso odierno.
Nello specifico, la Corte di Cassazione, sconfessando il Regolamento di cui l’Ente si era dotato (che prevedeva appunto il pagamento degli incentivi soltanto alla conclusione dell’opera) ha sancito il principio secondo il quale “la sorte della retribuzione accessoria reclamata dai dipendenti non può essere condizionata alla mancata conclusione delle successive fasi (oppure nel caso di specie dalla soccombenza ad un contenzioso), tanto che in mancanza di queste ultime verrebbero meno le precedenti attività pur completate”.
Tale conclusione è molto importante e deriva dal fatto che i citati incentivi derogano alla disciplina generale del trattamento accessorio dettata dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (art. 45), in quanto il legislatore ha previsto, in una logica premiale ed al fine di valorizzare le professionalità esistenti all’interno delle pubbliche amministrazioni, un compenso ulteriore, da attribuire, secondo le modalità stabilite dalle diverse versioni della norma succedutesi nel tempo, al personale impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti oltre che in quelle di esecuzione dei lavori pubblici.
A nostro parere, pertanto, l’incentivo è comunque da riconoscere e liquidare al personale dell’Ente per le specifiche attività svolte, secondo le previsioni del proprio regolamento comunale, fermo restando l’eventuale accertamento (con conseguente mancata partecipazione alla ripartizione degli incentivi), a carico dei dipendenti coinvolti, del mancato rispetto di obblighi di legge e/o regolamentari o il mancato svolgimento dei compiti assegnati secondo la dovuta diligenza richiesta (se previsto nel proprio regolamento).



Coronavirus: la quarantena equivale a periodo di malattia

Con il riaccendersi dei focolai Covid-19, torna di attualità una delle prime misure urgenti prese dal Governo con il decreto Cura Italia: i lavoratori che sono posti in quarantena per contenere il rischio di contagio da Coronavirus, hanno diritto alla prestazione lavorativa della malattia.

In pratica, i giorni trascorsi a casa (la quarantena dura 15 giorni) non si calcolano ai fini del superamento del periodo di comporto e vengono altresì retribuiti. Il riferimento è l’articolo 26, comma 1, del decreto 18/2020. Quanto previsto dal Legislatore riguarda il periodo trascorso in isolamento con sorveglianza attiva (persone che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva) o in permanenza domiciliare fiduciaria (cioè che hanno fatto ingresso in Italia da zone a rischio) dei lavoratori dipendenti.

La seconda definizione resta valida e si applica anche declinata in base a specifiche ordinanze locali legate al rischio di contagio da Coronavirus. In ogni caso, è il Dipartimento di prevenzione della Asl a disporre il provvedimento di quarantena o sorveglianza in base alle indicazioni che possono arrivare dalla persone stessa, dall’azienda o dai medici di base.

Questi ultimi redigono il certificato, specificando gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare. Il provvedimento può venire emesso dall’autorità sanitaria in relazione a una delle notizie sopra riportate.

Esempio: un lavoratore segnala di avere avuto un contatto stretto con un caso confermato di Covid. L’azienda provvede ad avvisare l’autorità sanitaria (ci sono appositi numeri di emergenza per il Covid-19 forniti dalla Regione o dal ministero della Salute) che a sua volta prende le contromisure indicate.

I medici di base hanno precise indicazioni da parte delle autorità e di conseguenza sanno esattamente quando prescrivere la quarantena. Ricordiamo che l’indicazione del ministero è quella di rivolgersi al medico di base, chiamandolo al telefono, evitando invece di andare in pronto soccorso o in ambulatorio. La quarantena, come è noto, dura 15 giorni.

Attenzione: sono considerati validi i certificati di malattia trasmessi, prima dell’entrata in vigore del decreto Cura Italia (quindi, prima del 17 marzo), anche in assenza dell’indicazione del provvedimento in base al quale si dispone la quarantena.

La quarantena equivale a un periodo di malattia. Ed è quindi retribuita di conseguenza. E non vale ai fini del periodo di comporto (il numero massimo di giorni in cui un lavoratore può stare a casa per malattia mantenendo il diritto al posto di lavoro).

Contatti a rischio

Specifichiamo cosa significa , in base alle indicazioni del Ministero della Salute:

  • persona che vive nella stessa casa di un caso di COVID-19;
  • una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso di COVID-19 (per esempio la stretta di mano);
  • persona che ha avuto un contatto diretto non protetto con le secrezioni di un caso di COVID-19 (ad esempio toccare a mani nude fazzoletti di carta usati);
  • persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso di COVID-19, a distanza minore di 2 metri e di durata maggiore a 15 minuti;
  • persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d’attesa dell’ospedale) con un caso di COVID-19 per almeno 15 minuti, a distanza minore di 2 metri;
  • operatore sanitario od altra persona che fornisce assistenza diretta ad un caso di COVID19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso di COVID-19 senza l’impiego dei DPI raccomandati o mediante l’utilizzo di DPI non idonei;
  • persona che abbia viaggiato seduta in aereo nei due posti adiacenti, in qualsiasi direzione, di un caso di COVID-19, i compagni di viaggio o le persone addette all’assistenza e i membri dell’equipaggio addetti alla sezione dell’aereo dove il caso indice era seduto (qualora il caso indice abbia una sintomatologia grave od abbia effettuato spostamenti all’interno dell’aereo, determinando una maggiore esposizione dei passeggeri, considerare come contatti stretti tutti i passeggeri seduti nella stessa sezione dell’aereo o in tutto l’aereo).

C’è una precisazione per i datori di lavoro: gli oneri connessi alla quarantena, per i quali si presenta domanda agli enti previdenziali, sono a carico dello Stato.

Sottolineiamo infine che sono diverse le regole che si applicano ai dipendenti in possesso del riconoscimento di disabilità grave (articolo 3, comma 3, legge 104/1992), nonché in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita: in questi casi, fino al 30 aprile, il periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero.




L’ARAN sulle prerogative dei sindacati non rappresentativi

Una organizzazione sindacale che pur non essendo rappresentativa ha nell’ente molti iscritti può chiedere il riconoscimento di diritti sindacali come informazione, accesso ai luoghi di lavoro per lo svolgimento di attività sindacale, uso locali, bacheca sindacale, fondando le proprie richieste sugli artt. 3 e 39 della Cost., sull’art. 14 dello Statuto dei Lavoratori e sull’art. 43, comma 12, del D.Lgs. 165/2001?
Le richiamate garanzie costituzionali sono state trasfuse a livello di legislazione nazionale nella L. 300/1970. Lo Statuto dei lavoratori, pur garantendo, con l’art. 14, a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, nel titolo III dedicato ai diritti e alle prerogative sindacali ne individua i titolari nelle RSA di cui all’art. 19 della legge citata. Pertanto, anche nello Statuto dei Lavoratori diritti sindacali come la bacheca (art. 25) e i locali (art. 27) non sono attribuiti a qualunque organizzazione sindacale ma esclusivamente a quelle a cui è consentito costituire le RSA (sul punto cfr. sentenza Corte Cost. n. 231/2013).
Nel settore pubblico, come noto, il rapporto di lavoro dei dipendenti è regolato dal D.Lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego) il quale all’art. 42, intitolato “Diritti e prerogative sindacali nei luoghi di lavoro” afferma che: “Nelle pubbliche amministrazioni la libertà e l’attività sindacale sono tutelate nelle forme previste dalle disposizioni della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni. Fino a quando non vengano emanate norme di carattere generale sulla rappresentatività sindacale che sostituiscano o modifichino tali disposizioni, le pubbliche amministrazioni, in attuazione dei criteri di cui all’articolo 2, comma 1, lettera b) della legge 23 ottobre 1992, n. 421, osservano le disposizioni seguenti in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini dell’attribuzione dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro e dell’esercizio della contrattazione collettiva.”
Conseguentemente, come affermato dalla Corte di Cassazione sez. lavoro nella sentenza n. 3095 dell’8 febbraio 2018 “L’art. 42 (…) pur richiamando nell’incipit le tutele previste dalla legge n. 300 del 1970, obbliga le amministrazioni ad osservare «le disposizioni seguenti in materia di rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini dell’attribuzione dei diritti e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro e dell’esercizio della contrattazione collettiva», disposizioni che regolano la materia in termini diversi rispetto al settore privato”.
Il requisito della rappresentatività sindacale, richiesto dall’art. 42 del D.Lgs. 165/2001 per poter accedere ai diritti e alle prerogative, è stato altresì ribadito nel CCNQ sulle modalità di utilizzo delle suddette prerogative stipulato, ai sensi dell’art. 50, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, il 7 agosto 1998 (ora sostituito dal CCNQ 4 dicembre 2017). Si rammenta, in proposito, che le amministrazioni sono tenute ad applicare i contratti collettivi sottoscritti dell’Aran ai sensi dell’art. 40, comma 4 del d.lgs. n. 165/2001.
Nel citato CCNQ del 4 dicembre 2017, all’art. 39, comma 1, si conferma nuovamente che “tutte le prerogative sindacali disciplinate nel presente contratto (…) ai sensi del d.lgs. 165/2001 e del D.M. 23 febbraio 2009, non competono alle organizzazioni sindacali non rappresentative…”.
Alla luce delle sopracitate considerazioni un sindacato non rappresentativo nel comparto di riferimento non ha diritto ad alcun diritto e prerogativa sindacale.
Quanto infine al richiamato art. 43, comma 12, del D.Lgs. 165/2001 si evidenzia che la norma fa riferimento al gruppo di disposizioni (dal comma 8 al comma 12) riguardanti la costituzione e il funzionamento del Comitato paritetico, organismo previsto dalla legge con la finalità di garantire modalità di rilevazione dei dati certe ed obiettive, chiamato a certificare i dati che saranno utilizzati dall’Aran per il calcolo della rappresentatività sindacale. Il comma 12, in particolare, va letto nel senso che tutte le organizzazioni sindacali i cui dati associativi ed elettorali nel corso delle periodiche rilevazioni sono stati raccolti dall’Aran e sottoposti alla verifica del Comitato paritetico hanno diritto ad adeguate forme di informazione e di accesso ai dati che le riguardano. L’esplicitazione di tale assunto è rinvenibile, da ultimo, nell’art. 7, comma 5, del Regolamento di funzionamento del Comitato Paritetico (2019 – 20121) del 7 febbraio 2018 che regola appunto le modalità di accesso ai propri dati per le organizzazioni sindacali non rappresentative e, quindi, non rappresentate con propri delegati all’interno del Comitato Paritetico.
Pertanto, il citato comma 12 dell’art. 43 del D.Lgs. 165/2001 non attiene all’informazione intesa come modalità relazionale. Quest’ultima, invece, è disciplinata dai singoli CCNL di comparto o area.



La Cassazione sulle sanzioni disciplinari espulsive e conservative

Il legislatore, con l’introduzione delle disposizioni di cui all’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165/2001, pur facendo salva la disciplina generale in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, ha tipizzato specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare nel modo seguente:

  1. a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
  2. b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione;
  3. c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;
  4. d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera; e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;
  5. f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro;

f-bis) gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell’art. 54, comma 3;

f-ter) commissione dolosa, o gravemente colposa, dell’infrazione di cui all’art. 55-sexies, comma 3;

f-quater) la reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio;

f-quinquies) insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell’art. 3, comma 5-bis, D.Lgs. n. 150 del 2009.

Con tali disposizioni, precisano i giudici di legittimità, sono state introdotte fattispecie legali di licenziamento aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva. In questo caso il legislatore ha anche affermato con chiarezza, con il precedente articolo 55, comma 1, la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale; quest’ultima, quindi, non può essere più invocata ove in contrasto con la norma inderogabile di legge, venendo in tal caso sostituita di diritto da quest’ultima, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c.

In conclusione, per queste ipotesi tipizzate di licenziamento disciplinare, restano prive di effetto le clausole della contrattazione collettiva che prevedano una sanzione conservativa, anziché di natura espulsiva.

I poteri dei giudici di merito

Risolto il problema delle sanzioni espulsive tipizzate dal legislatore, restano da verificare le altre sanzioni disciplinari e i poteri dei giudici in presenza di una sanzione disciplinare conservativa prevista dalla contrattazione collettiva. In questo caso, precisano i giudici di Cassazione, le previsioni della contrattazione collettiva che individuano le fattispecie di licenziamento disciplinare non vincolano il giudice di merito, essendo quella della giusta causa e del giustificato motivo una nozione legale. Tale principio, tuttavia, subisce una eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento disciplinarmente rilevante unicamente una sanzione conservativa. In quest’ultimo caso, il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12, L. n. 604 del 1966). In altri termini, qualora alla violazione disciplinare del dipendente pubblico sia ricollegata dalla contrattazione collettiva una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti.

Pertanto, continua il giudice di legittimità, il giudice è vincolato dalla previsione del contratto collettivo che ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa. Di tale indicazione è proprio il legislatore a precisarlo, nel comma 2 dell’art. 55 del D.Lgs. n. 165/2001, secondo cui – salvo quanto previsto delle disposizioni dello stesso capo – la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi.




La responsabilità amministrativa dei dipendenti degli enti locali

Lo studio, a cura del Consigliere della Corte dei Conti Andrea Luberti, chiarisce i principali elementi della responsabilità amministrativa e contabile, anche alla luce delle più recenti novità normative e giurisprudenziali, con alcuni riferimenti   ai principali temi di diritto processuale.

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Norme generali su RSU e RLS

ARTT. 42 E 43 DEL TUPI

ACCORDO COLLETTIVO QUADRO 1998

INTEGRAZIONI E MODIFICHE ACQ (2013) 

MODIFICHE ALL’ACQ PER LA COSTITUZIONE DELLE RSU (2015)  




Il Testo Unico sul Pubblico Impiego

Testo unico sul pubblico impiego (TUPI)

“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”

(D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165)

[Aggiornato al 30/06/2020]




ARAN: Monitoraggio contrattazione integrativa (luglio 2020)

L’ARAN ha pubblicato il Rapporto sul monitoraggio della contrattazione integrativa nel lavoro pubblico  che contempla le risultanze di sintesi dell’anno 2019 e l’analisi di dettaglio dell’anno 2018.

Rapporto ARAN




Licenziamento illegittimo: ammessa solo la reintegrazione

Il “decreto Madia” (d.lgs. n. 75/2017) ha modificato il T.U. del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, portando chiarezza e certezza sul regime del licenziamento disciplinare, a soluzione delle perplessità sorte dopo la “legge Fornero” (legge n. 92/2012).
Nelle pubbliche amministrazioni c’è, in qualunque caso di illegittimità del licenziamento, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, senza possibilità di scelte diverse per entrambe le parti.

Inoltre, eliminando qualunque riferimento all’art. 18 Stat. lav., è stato escluso il “rito Fornero”. Resta, come disposto già con la prima privatizzazione del 1993, un regime totalmente diverso per le cessazioni dovute a motivi oggettivi, che la legge chiama «risoluzioni» senza usare la parola «licenziamento».

Il “decreto Madia” attribuisce anche un potere officioso del giudice, senza domanda, di rideterminare la sanzioni in caso d’illegittimità del licenziamento per sproporzione: oltre qualche incertezza facilmente superabile, sorgono dubbi su questo potere d’ufficio d’andare oltre le domande delle parti. Alla fine bisogna dar atto, ancor di più per i regimi di licenziamenti e «risoluzioni», che il lavoro pubblico ha una disciplina completamente distinta e separata rispetto a quella privata, con impossibilità di confronti.

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Ad ulteriore specifica, è bene ricordare che all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Fornero (92/12) si è discusso se l’art. 18 riformato trovasse applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato oppure se dovesse continuare ad applicarsi l’art. 18 pre–riforma dello Statuto dei Lavoratori.
La tesi favorevole all’applicazione della norma, come riformata, argomentava perlopiù sul fatto che il rinvio di cui all’art. 51, comma 2, D.lgs 165/01 dovesse essere considerato come rinvio mobile.

Tuttavia vi era anche chi aveva osservato che, comunque, il licenziamento nel pubblico impiego avrebbe dovuto considerarsi nullo per contrarietà a norme imperative, applicandosi pertanto il primo comma dell’art. 18 “post–Fornero” e quindi, di fatto, le stesse conseguenze (reintegra) previste in base alla disciplina previgente.
La tesi contraria faceva leva, prevalentemente, su argomenti sistematici che avrebbero dovuto condurre a ritenere incompatibile l’opzione per una tutela meramente indennitaria con la disciplina del pubblico impiego seppur privatizzato.
Inoltre si faceva riferimento ai commi 7 e 8 dell’art. 1 L. 92/12, evocanti un futuro intervento normativo funzionale all’”armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Ulteriori problemi ha posto la legge c.d. sulle tutele crescenti. La questione, ormai non più attuale, era sorta per la mancanza di una espressa previsione tanto di inclusione quanto di esclusione del pubblico impiego dall’ambito di applicazione del D.lgs. n. 23/2015, silenzio suscettibile di opposte interpretazioni.

Dal punto di vista processuale, prima della riforma del 2017 (di cui al D.lgs n. 75/17), non vi erano dubbi, salvo ritenere ratione temporis (cioè per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015) applicabile la legge c.d. sulle tutele crescenti, sull’applicazione del rito di cui all’art. 1, commi 47 ss. L. 92/12.

Come confermato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 9 giugno 2016, n. 11868 – vedi oltre), infatti, restava “fuori dal tema dibattuto […] l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando nè nelle previsioni della L. n. 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) nè nel corpo normativo di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1, comma 47 della legge del 2012”.

Tutto ciò fino a quando il legislatore del 2017, con il D.lgs n. 75/17, intervenendo sull’art. 63 T.U. del pubblico impiego, non ha previsto un nuovo regime speciale di tutela contro i licenziamenti, disponendo che “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”

Il nuovo regime garantisce indubbi vantaggi al dipendente pubblico rispetto ai dipendenti del settore privato. Tuttavia, come è stato giustamente osservato, ciò non è vero in assoluto, poiché, se è vero che iI dipendente pubblico ha sempre diritto alla reintegra in caso di licenziamento invalido:
– è però svantaggiato in caso di licenziamento nullo o discriminatorio, per il quale, applicando l’art. 18 post – Fornero, avrebbe avuto il diritto alla reintegra piena senza il limite delle 24 mensilità.
– è inoltre svantaggiato in caso di vizi formali (salvo che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa), alla luce del dettato dell’art. 55 bis comma 9 tre T.U. P.I., secondo cui “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento”.

Con riferimento al rito applicabile, la novella del 2017 ha individuato, in materia di licenziamenti nel pubblico impiego, una tutela speciale e derogatoria delle norme comuni, che, anche se corrisponde (pur con alcune differenze), nella sostanza, alla disciplina di cui all’art. 18 pre–Fornero, non trova con l’art. 18 L. 300/70 alcun corrispondenza dal punto di vista formale.
In altre parole, poiché il rito Fornero si applica solo alle controversie in cui si invoca non una tutela reintegratoria ma, specificamente, l’art. 18 della L. 300/1970, nel pubblico impiego, dove quella disposizione non trova più applicazione, non troverà più asilo neanche il rito di cui all’art. 1 commi 47 ss. L. 92/12; viceversa il rito applicabile sarà quello “ordinario” del lavoro di cui agli artt. 409 ss. c.p.c.

Ma se, nonostante quanto evidenziato, l’impiegato pubblico licenziato impugna il recesso chiedendo tutela ai sensi dell’art. 18 St. Lav.? Valorizzando il principio dell’unicità dell’impugnazione del licenziamento, si ritiene che non si debba concludere per il rigetto della domanda, ma che il giudice, laddove ne ricorrano i presupposti, debba accordare la tutela prevista dalla legge applicabile (art. 63 T.U. pubblico impiego).

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Cassazione civile sez. lav., 09/06/2016, n.11868

Ad avviso della Corte di cassazione ai licenziamenti di cui sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 92/2012.

Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, nel commentare tale sentenza, ha affermato che si è di fronte ad una pronuncia equiparabile a quelle emesse dalla Sezioni Unite: infatti, la Sezione specializzata, precisa lo stesso Primo Presidente, dopo ampio e approfondito dibattito, ha assunto una decisione unanime, così superando la posizione contraria assunta dalla stessa Corte di Cassazione con sentenza n.24157/2015 e con esclusione, in definitiva, dei necessari presupposti per un’eventuale rimessione alle medesime Sezioni Unite.

Con tale sentenza, dunque, la Cassazione ritorna sulle argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo, secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012 non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti della pubblica amministrazione sino a un intervento di armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo 1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.

I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2, del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18 nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.

Con la sentenza in oggetto la Cassazione dichiara di non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento dell’articolo 51, comma 2, del testo unico alla legge 300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla data in cui è stata introdotta.

La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il permanere di una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura, privata o pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è presente, diversamente dal privato, la necessità di far prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon funzionamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato all’interesse collettivo.




Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori


ANALISI GIURIDICA DELL’ISTITUTO

Nel nostro ordinamento sono presenti alcuni limiti per il datore di lavoro relativamente all’attività di vigilanza e controllo che può esercitare sui propri dipendenti. Esistono, infatti, il diritto alla riservatezza, la dignità personale, la libertà di pensiero, di espressione e di comunicazione.
Sul luogo di lavoro tali diritti sono tutelati dal Legislatore con la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), in particolare con gli articoli 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo), 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) e 15 (Atti discriminatori).
Tale disciplina è stata riformatadal c.d. “Jobs Act”, che ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Prima della riforma (entrata in vigore il 24 settembre 2015), vigeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Tale divieto veniva meno solo nei casi in cui il datore di lavoro, per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, intendesse installare nuove apparecchiature dalle quali potesse derivare un controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti: in tal caso, era necessario il previo accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza, l’autorizzazione delle articolazioni locali del Ministero del Lavoro territorialmente competenti.

Il nuovo testo della norma pone in evidenza due aspetti:
1) da un lato, l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (quali impianti di videosorveglianza);
2) dall’altro, l’utilizzo di altri strumenti che il datore di lavoro assegna ai propri dipendenti per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, pc, telefoni, tablet), nonché gli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze.

1) I primi (impianti audiovisivi e strumenti di controllo a distanza) continuano, come in passato, a poter essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. Affinché la loro installazione ed il loro utilizzo sia considerato legittimo, è necessario che vi sia un accordo sindacale sulle modalità di utilizzo di tali apparecchiature (accordo stipulato, a seconda delle dimensioni dell’impresa, con le RSA o le RSU o con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale). Se tale accordo manca, il datore di lavoro deve ottenere la previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro (si rivolgerà all’uno o all’altro a seconda delle dimensioni dell’azienda).

2) La seconda parte della norma, invece, legittima l’esercizio di un controllo a distanza (c.d. diretto) effettuato sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per eseguire le proprie mansioni e sugli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (c.d. lettori badge). In questo caso, infatti, non c’è l’obbligo per il datore di lavoro di raggiungere una intesa sindacale o di ottenere l’autorizzazione ministeriale: il controllo è libero e può essere effettuato anche senza un’esigenza organizzativa o produttiva. In assenza di qualsiasi funzione di “filtro” attribuita alle organizzazioni sindacali o alla vigilanza del Ministero del Lavoro per mezzo della Direzione Territoriale del Lavoro, è il singolo lavoratore che dovrà verificare se il controllo è esercitato dall’imprenditore in modo legittimo ed eventualmente recarsi presso un sindacato o un legale per tutelare i propri diritti.

Oltre alla normativa giuslavoristica, il Datore di lavoro dovrà rispettare anche tutto l’impianto normativo relativo alla protezione dei dati personali, costituito dal Regolamento Europeo 2016/679, dal Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) e dai provvedimenti emessi nel corso degli anni dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Per non incorrere in sanzioni penali e civili il Datore di Lavoro dovrà mettere in atto delle corrette procedure interne per la gestione di tali dati, in primo luogo dovrà rispettare il dettato normativo dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che prevede, al comma III, la possibilità di raccogliere le informazioni mediante gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e di poterne disporre per tutti i fini connessi al relativo rapporto, purché sia stata fornita adeguata informazione al lavoratore sulle modalità d’uso dei dispositivi stessi e sui possibili controlli, il tutto nel rispetto dei principi sanciti dalla normativa vigente in tema di privacy.

Il datore di lavoro dovrà pertanto essere in grado di dimostrare come l’utilizzo delle tecnologie informatiche non rientri in un programma volto esclusivamente al controllo dell’attività del lavoratore. È bene ricordare che il controllo a distanza non sussiste solamente in presenza di impianti di videosorveglianza, ma anche in presenza di attività quali “la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate”, come ribadito anche da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 28.05.2018 n.13266).
L’uso degli strumenti di controllo dev’essere sempre contenuto nella portata e proporzionato.

Affinché il controllo a distanza possa ritenersi legittimo e i dati così acquisiti siano utilizzabili, è fondamentale fornire ai dipendenti un’informativa esaustiva in ordine all’uso degli strumenti aziendali, ai dati trattati, al loro utilizzo e conservazione, nonché circa le modalità con cui vengono eseguiti i controlli, che i controlli non abbiano ad oggetto l’attività lavorativa del dipendente e che siano effettuati ex post, a seguito del verificarsi di un comportamento illecito del lavoratore o comunque per la verifica di un’anomalia del sistema informatico. Non è infatti consentito un accesso indiscriminato al datore di lavoro agli strumenti informatici in uso al lavoratore.

I lavoratori devono essere sempre previamente informati del possibile controllo datoriale sulle loro comunicazioni anche via internet; per questo motivo diventa fondamentale adottare una privacy policy adeguata e calata nello specifico contesto e sarà perciò compito del datore di lavoro fornire al lavoratore una adeguata informativa relativa il trattamento dei dati personale (ex art. 13 Regolamento Europeo 2016/679).
Qualora il Datore di Lavoro contravvenga alle prescrizioni previste dal GDPR o dallo Statuto dei Lavoratori, potrà incorrere in sanzioni di carattere amministrativo e penale.

Trattamento dei dati biometrici: che cosa prevede il GDPR

A disciplinare il trattamento dei dati biometrici per applicazioni di controllo accessi e rilevazione presenze sono il GDPR – General Data Protection Regulation e il successivo decreto italiano di adeguamento (D.lgs. 101/2018).

L’art. 9, par. 1, del GDPR vieta – in linea generale – il trattamento dei dati biometrici, fatte salve alcune eccezioni. La prima eccezione prevede che l’interessato abbia autorizzato il trattamento.

Seguono, poi, altre eccezioni, che consentono l’utilizzo dei dati biometrici solo se necessario in ambito lavorativo o nell’ambito della sicurezza sociale e collettiva; se necessario per la protezione di un interesse vitale dell’interessato o di altra persona; se necessario in un procedimento giudiziario; se vengono rilevati particolari motivi di interesse pubblico o per motivi di sicurezza sanitaria, controllo e prevenzione di malattie trasmissibili e per la tutela di gravi minacce per la salute delle persone fisiche.

La seconda eccezione, in particolare, giustifica la presenza di sistemi basati su riconoscimento dei dati biometrici in ambito lavorativo per l’accesso ad “aree critiche”: pensiamo, ad esempio, a quelle zone, all’interno di una grande industria, in cui sono presenti macchinari dall’utilizzo pericoloso per i non addetti ai lavori oppure ai laboratori speciali all’interno degli ospedali, alle torri di controllo e alle aree speciali degli aeroporti o ai caveau delle banche.

Si tratta, in tutti i casi, di zone critiche, il cui ingresso deve essere protetto da un controllo accessi severo e altamente affidabile come quello di tipo biometrico. Che cosa accade, quindi, nel caso in cui si decida di adottare la tecnologia biometrica negli Uffici della Pubblica Amministrazione?

Videosorveglianza e biometria nella Pubblica Amministrazione: il NO del Garante Privacy 

La Legge Concretezza (19 giugno 2019, n. 56) in tema di “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo”, aveva previsto, oltre a misure volte a migliorare le capacità e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, diversi interventi per la prevenzione dell’assenteismo: impronte digitali a sostituzione del badge e, in più, l’installazione di telecamere di videosorveglianza a varchi di acceso. Più nel dettaglio, la Legge prevede che l’identificazione del dipendente avvenga tramite il riconoscimento delle impronte digitali, controlli dell’iride o riconoscimento vocale, sia in entrata che in uscita.

Chiamato a esprimere il proprio parere sullo schema di decreto riguardante, nello specifico, la prevenzione dell’assenteismo, il Garante della Privacy ha dichiarato che l’accoppiata rilevazioni biometriche- sistemi di videosorveglianza è “di dubbia compatibilità con le regole della Privacy europea e nazionale”.  

Relativamente all’adozione di telecamere di videosorveglianza per il controllo dei varchi, manca la proporzionalità tra tale misura e le esigenze organizzativo-produttive, di sicurezza sul lavoro e di tutela del patrimonio aziendale previste dal Provvedimento del Garante della Privacy del 2010, dallo Statuto dei Lavoratori, nonché dalla circolare n. 5/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Riguardo, invece, all’utilizzo di sistemi biometrici, mancano i presupposti indicati dal GDPR, ovvero fattori di rischio specifici, la presenza – e il ripetersi – di situazioni critiche, che potrebbero arrecare danno alle persone, all’ambiente e al patrimonio.

Insomma, secondo l’Autorità Garante, la motivazione “prevenzione dell’assenteismo” non regge, non giustifica la scelte di telecamere e di sistemi biometrici nella Pubblica Amministrazione. Tale scelta sembra, invece, andare verso il “controllo” del lavoro e dei comportamenti dei lavoratori, tassativamente vietato dalla normativa italiana e internazionale in tema di Privacy.

 




La riforma della Pubblica Amministrazione (2019)

Scheda di sintesi elaborata dal Servizio Studi della Camera dei Deputati sulla legge 56 del 2019 (Legge Concretezza) che contiene specifiche misure tese a migliorare l’azione della pubblica amministraazione

Riforma Pubblica Amministrazione