La progressione verticale verso la dirigenza sarà una lunga sanatoria dei dirigenti a contratto

L. Oliveri (La Gazzetta degli Enti Locali 7/7/2021)

L’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021, nel rispetto delle indicazioni programmatiche enunciate nel marzo 2021 dal Ministro della funzione pubblica, apre nettamente percorsi di carriera per i dipendenti pubblici, rendendo possibile la progressione verticale dalla qualifica di funzionario a quella dirigenziale.
È bene ricordare che fin qui tale progressione non era possibile: l’accesso alla dirigenza era assicurato esclusivamente da procedure di concorso pubblico, che, oggettivamente, costituivano ed un tempo un criterio selettivo molto accentuato, ma anche ostacolo alle prospettive di carriera, per l’asimmetria organizzativa.
La carriera, infatti, nelle pubbliche amministrazioni non è lineare: l’accesso alla dirigenza non è comunque disponibile in tutti gli enti, perché non tutti prevedono qualifiche dirigenziali. Pertanto, molto spesso l’accesso alla dirigenza implica anche scelte “logistiche” ed il passaggio ad amministrazioni diverse, e non necessariamente quindi un salto di carriera nell’ente di appartenenza.
Tuttavia, nei fatti gli enti hanno utilizzato in via di prassi (ed in modo certamente più che criticabile) strumenti per aggirare gli ostacoli al percorso di carriera ed introdurre comunque una vera e propria progressione verticale, sia pure non in grado di assicurare con continuità l’accesso alla dirigenza.
Si tratta dell’uso distorto delle previsioni contenute nell’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 e dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 e, cioè, degli incarichi dirigenziali a contratto.
La combinazione tra le due norme, per alto obbligatoria e necessaria, come da sempre indica la giurisprudenza e come dal 2009 impone il comma 6-ter, dell’articolo 19 del d.lgs. 165/2001, impone di attribuire gli incarichi a contratto in presenza di alcune condizioni oggettive e di requisiti soggettivi molto specifici.
Sul piano soggettivo, gli enti debbono dimostrare che l’incarico è finalizzato a coprire fabbisogni di particolare, dunque non comune, qualificazione professionale, a condizione che tali qualificazioni non siano rinvenibili negli organici, fornendo a proposito adeguata dimostrazione e motivazione.
Sul piano soggettivo, alla particolare qualificazione del fabbisogno, corrisponde la elevata e non ordinaria qualificazione professionale dei destinatari, reclutabili con le forme semplificate e parzialmente derogatorie al concorso pubblico specificati dalle norme, tra persone di particolare e comprovata qualificazione che:

  1. abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali,
  2. o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza,
  3. o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.

La prima e la terza categoria di soggetti non pone problemi interpretativi. In particolare la terza è chiarissima: si possono reclutare tra i dirigenti persone la cui attività lavorativa è già stata preceduta da concorsi selettivi di altissimo profilo ed è caratterizzata da attività e funzioni in qualche misura già simmetriche a quelle dirigenziali (anche se per i docenti universitari questo non è da dare per scontato). La prima categoria è riferita nella sostanza a chi abbia in passato già rivestito incarichi dirigenziali, anche in soggetti privati, per almeno 5 anni.
Oggetto delle distorsioni interpretative e, soprattutto, applicative è sempre stata la second categoria. Le amministrazioni sono sempre state portate a leggere solo la parte finale della norma, nella quale si consente di assegnare l’incarico dirigenziale a personale interno in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza con 5 anni di servizio, limitando a questo solo requisito il presupposto per l’attribuzione. A meglio leggere, invece, la norma chiede di più: non basta la semplice anzianità di servizio, ma occorre insieme all’esperienza lavorativa quinquennale la “particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche”.
Sta di fatto che le PA ed in particolare gli Enti locali hanno largheggiato nell’attribuire incarichi a contratto a funzionari interni, del tutto privi dei requisiti di particolare professionalità richiesti dalla norma, utilizzando appunto l’articolo 110 del d.lgs. 267/2000 e l’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001 come strumento per assicurare una “progressione verticale a tempo determinato”, che però non di rado si è dimostrata stabile nel tempo, per effetto delle molte reiterazioni di detti incarichi.
L’articolo 3 del d.l. 80/2021, come detto, introduce una vera e propria progressione verticale verso la dirigenza, potenzialmente capace di assicurare molti benefici:

  1. attivare percorsi di carriera fin qui accidentati;
  2. creare uno strumento lineare e regolato dalla norma per l’accesso dei funzionari già dipendenti dalle amministrazioni che intendono coprire fabbisogni di qualifiche dirigenziali;
  3. superare, di conseguenza, attuazioni delle norme oltre i limiti della legittimità;
  4. porre in essere i presupposti per una formazione interna di soggetti competenti ed in grado di assumere progressive funzioni responsabilizzanti.

Guardando, quindi, la parte mezza piena del bicchiere della riforma, i vantaggi potenziali sono molti ed importanti.
Non può sfuggire un dettaglio: la nuova progressione verticale verso la dirigenza dovrebbe porre un freno appunto ad incarichi dirigenziali a contratto a funzionari interni non di rado forzati e, soprattutto, caratterizzati dall’assenza dei requisiti soggettivi. Ma, anche oggettivi: nessuno è mai riuscito efficacemente a spiegare come sia possibile attribuire incarichi motivati dall’assenza di professionalità nella dotazione organica a dipendenti che facciano parte della medesima dotazione organica!
La progressione verticale non obbliga a spiegare l’attribuzione della qualifica dirigenziale ai funzionari sulla base della necessità di acquisire professionalità peculiari, ma sarà una modalità ordinaria di selezione e di carriera, senza le forche caudine di motivazioni e rilevazioni complicate, barocche e spesso, a ben vedere, solo formali.
Non si può negare, tuttavia, che la parte mezza vuota della riforma sia parecchio preoccupante, per una serie di ragioni.
In primo luogo, in assenza di controlli preventivi esterni di legittimità, nessuno potrà assicurare che le progressioni verticali non saranno disegnate “ad personam” (in violazione, per altro, delle indicazioni anche del Piano Nazionale Anticorruzione del 2013) e senza la specifica attenzione alla qualificazione professionale richiesta.
In secondo luogo, il combinato disposto tra progressione verticale verso la dirigenza e la liberalizzazione della mobilità potrà amplificare a dismisura i casi come quelli del Lazio, ove un comune di piccolissime dimensioni, Allumiere, ha fatto nella sostanza da “centrale” di concorsi, per consentire la creazione di una lunga lista di idonei (molti dei quali casualmente funzionari di partito di spicco o parenti di funzionari di partito di spicco) alla quale hanno attinto tante amministrazioni, dalla regione ad altri comuni. Un simile sistema potrebbe non casualmente essere costruito per assicurare concorsi localizzati, non facilmente individuabili dai “radar”, semplici e mirati, perché qualcuno possa essere assunto come funzionario e dopo poco essere poi trasferito per accedere alla dirigenza. Troppo complicato? Quando le amministrazioni locali intendono slalomeggiare tra le norme, si assiste ad applicazioni forzate ben più arzigogolate.
Ma, il punto che si intende approfondire qui è un altro. La tabella di raffronto che proponiamo di seguito evidenzia una certa sovrapponibilità tra l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e le nuove disposizioni introdotte dall’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021 nel corpo dell’articolo 28 del d.lgs 165/2001, in relazione alla possibilità che funzionari accedano alla dirigenza:

 

Art. 19, comma, 6, stralcio Art. 28, comma 1-ter, del d.lgs 165/2001, come introdotto dall’articolo 3, comma 3, del d.l. 80/2021
Tali incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitariada pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza Fatta salva la percentuale non inferiore al 50 per cento dei posti da ricoprire, destinata al corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, ai fini di cui al comma 1, una quota non superiore al 30 per cento dei posti residui disponibili sulla base delle facoltà assunzionali autorizzate è riservata, da ciascuna pubblica amministrazione al personale in servizio a tempo indeterminatoin possesso dei titoli di studio previsti a legislazione vigente e che abbia maturato almeno cinque anni di servizio nell’area o categoria apicale. Il personale di cui al presente comma è selezionato attraverso procedure comparative bandite dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, che tengono conto della valutazione conseguita nell’attività svolta, dei titoli professionali, di studio o di specializzazione ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenzialedella tipologia e del numero degli incarichi rivestiti con particolare riguardo a quelli inerenti agli incarichi da conferire e sono volte ad assicurare la valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali. A tal fine, i bandi definiscono le aree di competenza osservate e prevedono prove scritte e orali di esclusivo carattere esperienziale, finalizzate alla valutazione comparativa e definite secondo metodologie e standard riconosciuti. A questo scopo, sono nominati membri di commissione professionisti esperti nella valutazione delle suddette dimensioni di competenza, senza maggiori oneri

 

Tratti comune delle due norme sono:

  1. l’esperienza pregressa almeno quinquennale;
  2. il possesso di titoli di studio o di specializzazione ulteriori a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenziale.

La norma del 2021 ha, tuttavia, il pregio di specificare con maggior chiarezza quei tratti, lasciati invece troppo indeterminati e preda di applicazioni arbitrarie da parte dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs. 165/2001.
Si guardi all’esperienza: non basta una semplice “anzianità” nella qualifica, ma fanno titolo, ai fini della procedura comparativa il numero degli incarichi rivestiti, attinenti alla posizione dirigenziale da ricoprire, e la valutazione ottenuta, che dà un’idea di come quegli incarichi siano stati svolti.
Si guardi ai titoli di studio o di specializzazione. L’articolo 19, comma 6, pretende, a ben vedere, che l’incaricato a contratto disponga sia di titoli postuniversitari e pubblicazioni scientifiche; l’articolo 28, comma 3-ter, novellato, ai fini della progressione verticale richiede che il candidato dimostri titoli e specializzazioni ulteriori alla laurea, necessaria per accedere alla qualifica.
Insomma, la progressione verticale è resa possibile, ma la condizione per accedervi è un investimento importante del dipendente nella propria carriera, accedendo ad incarichi di responsabilità, e nella propria formazione, acquisendo titoli di specializzazione (master, dottorati).
Si vorrebbe assicurare la progressione verticale non come sbocco automatico per anzianità al funzionario, ma a chi mostri capacità osservate nel passato e l’acquisizione di titoli e competenze, tali da consentire l’acquisizione di una qualifica dirigenziale che abbia prospettive di successo gestionale, sebbene non ottenuta a seguito del superamento del tradizionale concorso.

Se questi sono i pregi dell’impianto, non possono sfuggirne i gravi difetti. Un primo, che sarà da dimostrare, è il rischio di utilizzare la progressione verticale proprio come sbocco automatico, per nulla meritocratico. Vero è che le prove comparative dovrebbero dare merito al titolo di studio superiore, all’esperienza connessa ad incarichi concretamente gestiti ed alla valutazione positiva: ma, in assenza di criteri omogenei di pesatura di questi elementi, il rischio è che se ciascun ente farà da sé, potrà anche annullare nei fatti la significatività di questi criteri, se il predestinato non abbia in ogni caso né esperienza, né titoli rilevanti (non bisogna dimenticare che in Italia si sono verificati casi di direttori generali di comuni con la sola terza media e di dirigenti a contratto nemmeno laureati).
Ma, il secondo elemento critico appare il più delicato. Gli effetti positivi (che speriamo prevalgano su quelli nefasti, pur temendo la prevalenza di questi secondi) della riforma difficilmente si vedranno per un iniziale ma lungo tratto di tempo.

La progressione verticale, così come congegnata e grazie alla chiara parziale sovrapponibilità con l’articolo 19, comma 6, si presta ad essere utilizzata come mega sanatoria per gli incarichi a contratto conferiti in questi anni a funzionari.
È l’occasione per trasformare quella “progressione verticale a tempo determinato” in via di fatto realizzata così tanto spesso e in violazione delle norme, in una progressione definitiva, mirata esattamente a chi ha beneficiato o sta beneficiando degli incarichi dirigenziale a contratto, da “interni”.
Non ci si lasci ingannare dalla circostanza che la progressione verticale verso la dirigenza sia riservata solo ai dipendenti a tempo indeterminato. Solo in apparenza gli incaricati a contratto sono dipendenti a tempo determinato; lo sono nella qualifica dirigenziale, ma se si tratta di incaricati “interni”, sono dipendenti a tempo indeterminato con la qualifica di funzionari e collocati in aspettativa. Dunque, possono certamente concorrere alla verticalizzazione.

Non solo. I funzionari incaricati a contratto in questi anni, pur magari non possedendo né i tioli di studio postuniversitari né le pubblicazioni scientifiche che, pure, la norma imponeva, hanno certamente accumulato incarichi perfettamente in linea con la qualifica dirigenziale da coprire.
La rendita di posizione acquisita da costoro appare evidentissima e tale che bandi ben calibrati, volti a dare maggiore spazio valutativo appunto agli incarichi, specie se “dirigenziali” e molto meno ai titoli, non potranno che avere un esito scontato: la “stabilizzazione” degli incaricati a contratto, a sanatoria degli incarichi dirigenziali un po’ fantasiosi loro appannaggio negli anni.
Facile immaginare che per un tratto di tempo medio lungo le progressioni verticali verso la dirigenza saranno finalizzate alla trasformazione degli incarichi a contratto in assunzioni stabili nella qualifica dirigenziale.
Per lo stesso non breve tratto di tempo, dunque, si renderà concreta l’immissione di rilevanti quantità di dipendenti pubblici nella qualifica dirigenziale, selezionati a suo tempo nonostante l’assenza di rilevanti e peculiari competenze e per ragioni di chiara appartenenza politica o, comunque, fiduciarie.

Non un grande esito per una riforma che, per quanto caratterizzata da potenzialità positive, nell’immediato presta il fianco ad essere totalmente soffocata da intenti ben diversi dall’apertura delle carriere alla formazione e all’approdo verso la dirigenza. E, come rilevato prima, anche dopo, una volta realizzata la mega sanatoria che per anni vanificherà i benefici, è comunque esposta ad applicazioni distorte, in assenza di controlli, chi assicurerà davvero il possesso in capo ai funzionari scelti il possesso dei requisiti, visto che nel corso di questi anni sono stati assegnati incarichi a contratto appunto a persone che i requisiti imposti dall’articolo 19, comma 6, non li vedevano nemmeno col binocolo.




Varato in Consiglio dei Ministri il Decreto Reclutamenti

Il Consiglio dei ministri (n. 22) si è riunito venerdì 4 giugno 2021 a Palazzo Chigi per approvare alcuni importanti provvedimenti, tra cui spicca il Decreto Reclutamenti (LA BOZZA DI TESTO IN PDF), varato per dare operatività al piano di reclutamento nella PA decisivo per mettere a regime le attività di applicazione del Recovery Plan.

I punti-chiave del Decreto Reclutamenti

Come si legge nel comunicato emesso da Palazzo Chigi, il decreto segue quelli già approvati, relativi alla governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e alla semplificazione, e costituisce così il terzo pilastro dell’assetto normativo che consentirà la piena attuazione del Piano. Le norme introdotte definiscono percorsi veloci, trasparenti e rigorosi per il reclutamento di profili tecnici e gestionali necessari e pongono le premesse normative per la realizzazione delle due riforme trasversali previste dal PNRR: la pubblica amministrazione e la giustizia.

I due punti chiave del provvedimento:
– Rafforzamento della capacità amministrativa,
– Misure organizzative per l’attuazione del Recovery Plan (transizione digitale e innovazione organizzativa della giustizia).

Il personale elencato nel testo avrà contratti a tempo determinato, che potranno superare la classica durata triennale ma senza sforare il calendario dei progetti a cui sono collegati. Per essere valido, il contratto dovrà infatti indicare il progetto per il quale viene attivato; e potrà essere interrotto per giusta causa ex articolo 2119 del codice civile se non saranno raggiunti gli obiettivi intermedi o finali previsti dal progetto. Per gli altri ministeri serviranno «altre migliaia di persone», spiega Brunetta, assicurando però che «non ci sarà nessun assalto alla diligenza».

 

 

 




Smart working: nella PA via la soglia minima del 50%

A seguito dell’approvazione del Decreto Proroghe, d.l. n. 56/2021) recante alcune disposizioni urgenti in materia di proroga dei termini legislativi, in considerazione del prosieguo dello stato di emergenza sanitaria da Coronavirus, la vigenza del lavoro agile semplificato e senza soglie è stata prolungata fino a dicembre.

Si torna pertanto alla normalità, con l’eliminazione della soglia minima del 50% per lo smart working nella Pubblica Amministrazione. Fino alla definizione della disciplina del lavoro agile nei contratti collettivi del pubblico impiego, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, le amministrazioni pubbliche potranno continuare a ricorrere alle modalità semplificate relative al lavoro agile, ma sono liberate da ogni rigidità.

“Facciamo tesoro della sperimentazione indotta dalla pandemia e del prezioso lavoro svolto dal ministro Dadone – ha sottolineato il titolare del dicastero ella Funzione pubblica, Renato Brunetta – per introdurre da un lato la flessibilità coerente con la fase di riavvio delle attività produttive e commerciali che stiamo vivendo e dall’altro lato la piena autonomia organizzativa degli uffici. Fino a dicembre le amministrazioni potranno ricorrere allo smart working a condizione che assicurino la regolarità, la continuità e l’efficienza dei servizi rivolti a cittadini e imprese. Un percorso di ritorno alla normalità, in piena sicurezza, concordato con il Comitato tecnico-scientifico e compatibile con le esigenze del sistema dei trasporti”.

A regime, dall’inizio del 2022, la norma conferma l’obbligo per le amministrazioni di adottare i Pola (Piani organizzativi del lavoro agile) entro il 31 gennaio di ogni anno, riducendo però dal 60% al 15%, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, la quota minima dei dipendenti che potrà avvalersi dello smart working.




Funzione Pubblica: congedi parentali ad ore e riposi giornalieri

La fruizione dei congedi parentali ad ore è compatibile con la utilizzazione di permessi che non sono disciplinati dal d.lgs. n. 151/2001. In questa direzione vanno le indicazioni contenute nel parere del Dipartimento della Funzione pubblica del 4 febbraio 2021, n. 7518.

Il parere ha ad oggetto “la possibilità di cumulare nella medesima giornata il congedo parentale ad ore ed i riposi giornalieri spettanti alla lavoratrice madre o al lavoratore padre nel primo anno di vita del bambino, alla luce di quanto previsto dagli articoli 39 e 40 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151”.

Il quadro legislativo è il seguente:
1) “il comma 1-bis dell’articolo 32 del d.lgs. n. 151/2001 ha introdotto la possibilità di fruire del congedo parentale su base oraria demandando alla contrattazione collettiva le modalità per l’applicazione dello stesso”;
2) Sulla base delle previsioni dettate dal d.lgs. n. 80/2015, “In caso di mancata regolamentazione, da parte della contrattazione collettiva, anche di livello aziendale, delle modalità di fruizione del congedo parentale su base oraria, ciascun genitore può scegliere tra la fruizione giornaliera e quella oraria.. è esclusa la cumulabilità della fruizione oraria del congedo parentale con permessi o riposi di cui al presente decreto legislativo”.

Ed ancora, ci viene detto che “i contratti collettivi nazionali, cui erano peraltro demandate le modalità di applicazione del congedo su base oraria, confermano la possibilità di accesso a tale forma di flessibilità del congedo parentale lasciando invariate le modalità di applicazione, purché conformi a quanto previsto dalle fonti legali”.
Di conseguenza, conclude il parere, si deve “ribadire l’incompatibilità della fruizione del congedo parentale ad ore con la fruizione di altri permessi o riposi disciplinati dal T.U. sulla maternità e paternità, risultando viceversa compatibile con permessi o riposi disciplinati da disposizioni normative diverse dal T.U., come nel caso dei permessi ex art. 33, commi 2 e 3, della legge n. 104 del 1992, quando vengono fruiti in modalità oraria“.




Smart working: nominati i componenti dell’Osservatorio nazionale

Il ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, ha nominato i componenti dell’Osservatorio nazionale del lavoro agile all’interno delle Amministrazioni nonché i membri della Commissione tecnica a supporto dell’Osservatorio stesso. I professionisti così scelti rimarranno in carica per un triennio, con una sola possibilità di futura riconferma. Competenze e funzionamento di entrambe le commissioni sono sancite nel decreto del ministro per la PA datato 4 novembre 2020.

L’Osservatorio
Il provvedimento ministeriale opera in attuazione dell’articolo 263, legge n. 77/2020 di conversione del decreto n. 34/2020 (cd. Decreto Rilancio). Scopo dell’Osservatorio è elaborare proposte e indirizzi metodologici in materia di lavoro agile. Svolge inoltre attività consultive, di studio e analisi, esamina i risultati del monitoraggio relativo all’attuazione dello smart working col fine di promuovere iniziative di formazione e di confronto. Il lavoro dell’Osservatorio sarà basato su un programma, redatto autonomamente, che determinerà di volta in volta i temi che necessitano di attenzione prioritaria, le fonti informative di carattere scientifico e le specifiche iniziative di rilevazione. Per i membri dell’Osservatorio non sono previsti emolumenti, compensi, indennità o rimborsi di spese.

La Commissione tecnica
In parallelo alla composizione dell’Osservatorio, il medesimo provvedimento designa anche i soggetti che parteciperanno ai lavori della Commissione Tecnica, composta da 14 esperti e incaricata di fornire suggerimenti tecnico-metodologici per lo svolgimento delle attività dell’Osservatorio stesso. Al Capo Dipartimento della Funzione pubblica, o a un suo delegato, è riconosciuto di diritto un ruolo all’interno della Commissione.

 IL DECRETO DI NOMINA

IL DECRETO 4 NOVEMBRE 2020




Corte dei Conti: risolta una controversia sulle spese per il personale

(articolo tratto da: www.anutel.it)

Gli aumenti contrattuali sono fuori dal tetto del salario accessorio. A risolvere l’ennesima controversia interpretativa legata alla spesa di personale degli enti locali è la Corte dei conti – Sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 19/2018.

La questione riguardava l’inclusione o meno nel limite di cui all’art. 23 del dlgs 75/2017, degli aumenti previsti dal nuovo Ccnl alle voci di cui alle lettere a) e b) dell’art. 67.

In effetti, tutto sembrava chiaro: la dichiarazione congiunta n. 5 prevede espressamente che «In relazione agli incrementi del Fondo risorse decentrate previsti dall’art. 67, comma 2 lett a) e b), le parti ritengono concordemente che gli stessi, in quanto derivanti da risorse finanziarie definite a livello nazionale e previste nei quadri di finanza pubblica, non siano assoggettati ai limiti di crescita dei Fondi previsti dalle norme vigenti».

Dal canto suo, la Corte dei conti – Sezioni riunite di controllo, con la deliberazione n. 6/2018 di certificazione sull’ipotesi di contratto funzioni locali ha statuito che «in merito agli incrementi al Fondo risorse decentrate previsti dalla lettera a) dell’art. 67, comma 2, si dà atto della dichiarazione congiunta, oggetto di specifico errata corrige all’ipotesi in esame, tendente a precisare che tali nuovi oneri «in quanto derivanti da risorse definite a livello nazionale e previste nei quadri di finanza pubblica, non siano assoggettabili ai limiti di crescita dei Fondi previsti dalle norme vigenti».

Ma la Sezione regionale di controllo della Puglia ha sposato una tesi diametralmente opposta: nella deliberazione n. 99/2018/Par si legge, infatti, che «l’art. 23, comma 2, del dlgs 75/2017 è tuttora vigente e si applica anche in rapporto agli aumenti previsti dall’art. 67, comma 2, del Ccnl del personale non dirigente degli enti locali del 21 maggio 2018. Nessuna rilevanza, in senso contrario, può essere attribuita alla dichiarazione congiunta n. 5 (…), non avendo la stessa alcun valore normativo (…)».

La Sezione regionale di controllo della Lombardia (deliberazione n. 221/2018) ha, invece, confermato la tesi dell’esclusione, rimettendo la palla la palla alle Autonomie, che hanno chiuso la partita. Ad avviso del collegio, assume valore dirimente la circostanza che le predette poste suscettive di incrementare stabilmente il fondo trovano la loro copertura nell’ambito delle risorse già destinate ai rinnovi contrattuali dai documenti di finanza pubblica e, di conseguenza, essendo già state quantificate in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di bilancio, non determinano effetti finanziari.

LA DELIBERA DELLA CORTE DEI CONTI – SEZIONE DELLE AUTONOMIE




Nuove regole per visite fiscali e assenze per malattia

Il 13 gennaio scorso è entrato in vigore il 13 gennaio 2018 il Decreto Ministeriale n. 206/2017 “Regolamento recante modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità”

In sintesi, il contenuto del decreto.

LE FASCE DI REPERIBILITÀ SONO RIMASTE LE STESSE  e rimane l’obbligo di reperibilità  anche nei giorni lavorativi e festivi:

  • dalle ore 09.00 alle ore 13:00
  • dalle ore 15:00 alle ore 18:00

 

A partire dal 13/01/2018, data di entrata in vigore del citato decreto NON SONO PIÙ ESCLUSI da reperibilità i dipendenti nei confronti dei quali era stata già effettuata la visita fiscale per il periodo di prognosi indicato nel certificato.

 

ESCLUSIONI DALL’OBBLIGO DI REPERIBILITA’

Sono  ESCLUSI  dall’obbligo di reperibilità i dipendenti la cui assenza sia riconducibile ad una delle seguenti situazioni:

a) patologie gravi che richiedono terapie salvavita

b) causa di servizio riconosciuta che abbia dato luogo all’ascrivibilità della menomazione unica o plurima alle prime tre categorie della Tabella A allegata al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1981, n. 834, (lesioni ed infermità che danno diritto a pensione vitalizia o ad assegno temporaneo) ovvero a patologie rientranti nella Tabella E del medesimo decreto (assegni di superinvalidità)

c) stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta, pari o superiore al 67%.

Rispetto alle precedenti norme sussiste ora l’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità anche per dipendenti in infortunio sul lavoro o con invalidità riconosciuta inferiore al 67%.

 

RIGUARDO ALLA VISITA FISCALE

  • può essere chiesta all’INPS dal datore di lavoro pubblico dal primo giorno di assenza del lavoratore e anche nei giorni successivi  con cadenza ripetitiva.
  • può essere disposta nei confronti dei lavoratori anche direttamente dall’INPS.
  • è sempre richiesta, sin dal primo giorno, quando l’assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative

Le PA dispongono il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all’effettuazione della visita, tenendo conto dell’esigenza di contrastare l’assenteismo.

Il dipendente deve in ogni caso comunicare all’ente di appartenenza la variazione dell’indirizzo di reperibilità.

Se la visita non viene effettuata per assenza del lavoratore all’indirizzo comunicato, l’INPS darà comunicazione immediata al datore di lavoro.

Il medico fiscale rilascerà apposito invito ad effettuare la visita ambulatorialmente, presso i locali dell’ufficio medico legale dell’INPS, per il primo giorno utile.

Il lavoratore può espressamente, sedutastante, non accettare l’esito della visita. Il dissenso è annotato dal medico sul verbale. In tal caso il lavoratore è invitato a visita fiscale, nel primo giorno utile, presso l’Ufficio medico legale dell’INPS competente per territorio, per il giudizio definitivo

 

RIENTRO ANTICIPATO AL LAVORO

E’ possibile il rientro anticipato dalla malattia, rispetto al periodo di prognosi indicato nel certificato, SOLTANTO mediante la produzione di un certificato medico che attesti la riduzione della prognosi precedentemente fissata, rilasciato dal medico che ha redatto la certificazione di prognosi.

 

Link Testo del Decreto Ministeriale n. 206/2017

 




Vademecum su Riforma Costituzionale e posizione di CSA e FIADEL

IL VADEMECUM SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE

Pubblichiamo la versione integrale del Vademecum sulla riforma costituzionale, realizzato dalla Segreteria Generale CSA FIADEL, dall’Ufficio Legislativo e dall’Ufficio Stampa, che oltre ad esporre compiutamente tutte le novità introdotte dal decreto Renzi/Boschi ne pone in evidenza i numerosi aspetti di criticità e analizza le motivazioni per i quali l’Organizzazione si schiera sul fronte del NO.
Il CSA Regioni Autonomie Locali e la FIADEL rivendicano, con questo documento, la priorità della tutela e difesa dei lavoratori del pubblico impiego – in principal modo del nuovo comparto funzioni locali – e dei lavoratori impegnati nello svolgimento delle proprie funzioni nei settori pubblici e privati.
Il CSA Regioni Autonomie Locali e la FIADEL stigmatizzano inoltre l’ “assordate silenzio” che circonda questioni di tale gravità, anche nelle schiere dei contrari e degli oppositori alla riforma Renzi-Boschi presso i quali la sorte di istituzioni come le Regioni e le stesse Province pare riscuotere ancora ben poca attenzione, battendosi strenuamente per il NO all’offensiva scatenata dai nemici dei diritti sociali, delle libertà civili e del pluralismo territoriale.

Visualizza e scarica il documento in PDF: freccia-link Vademecum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi: le ragioni del NO

LA SINTESI DELLA POSIZIONE CSA FIADEL SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE

L’Ufficio Legislativo ha sintetizzato in 10 punti le criticità del decreto Renzi/Boschi rispetto al comparto Regioni e Autonomie Locali, visualizzabili nel documento allegato. Si tratta di una lettura critica e mirata della riforma costituzionale, che nei vari passaggi pone in evidenza la manovra di accerchiamento che il Governo sta mettendo in atto nei confronti dei lavoratori delle Regioni e degli Enti Locali, esponendoli al rischio della perdita del posto di lavoro.

Visualizza e scarica il documento in PDF: freccia-link I DIECI PUNTI DELLE CRITICITA’ DETERMINATE ALLE REGIONI ED ALLE AUTONOMIE LOCALI